Work in progress: humanity is not a completed project

Il Museo Madre, sotto la curatela della direttrice Kathryn Weir, ospita fino al 10 aprile “Jimmie Durham: humanity is not a completed project”, retrospettiva sull’artista d’adozione partenopeo a quasi un anno dalla scomparsa.

Per comprendere il suo calibro basterebbe citare il Leone d’Oro alla Carriera in occasione della 58ma Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia oppure la pubblicazione della rassegna completa delle sue opere da parte dell’editore Phaidon. Jimmie Durham è stato tra gli scultori più innovativi e originali dell’arte contemporanea, la sua opera trascende i cliché della “Fast Art” occidentale recuperando oggetti di scarto e materiali ormai morti per resuscitarli attraverso una visione onirica e concettuale dell’arte sia essa scultura, performance, installazione arrivando fino al lirismo poetico.
L’esposizione si apre con l’indagine del rapporto tra natura e uomo, il contemporeneo Durham lo fa affondando la sua ricerca su Gilgamesh il poema epico babilonese, probabilmente il più antico del mondo. Nelle sue parole: “È la storia della prima città, Uruk, e della prima scrittura. Il principe Gilgamesh abbatté la foresta, costruì un muro e ciò che c’era dentro era la città. Poi iniziò a raccontare questa storia per iscritto provando che si trattava effettivamente di una città. Ha creato una verità: ha inventato una città e una verità allo stesso tempo”, e la sua grande opera scultorea restituisce all’osservatore la magia dell’incontro con Gilgamesh. Oppure, cosa può generare una ferita inflitta a un pezzo di legno di faggio caduto al confine franco-tedesco da alcune pallottole della Seconda Guerra Mondiale? La speranza di un piccolo insetto nell’annidarsi in un altro punto della corteccia. È questo il senso di “Une blessure par balles(2007)”. Ed è solo un’assaggio della visione zoomorfica che invece si ritrova in “A Dead Deer(1986)” oppure in “Untitled-Armadillo(1991)” unite alla dimensione umoristica e sarcastica nella raffigurazione delle opere.

Secondo Durham: “Si può eliminare la sua funzionalità, la sua forma, ma la materia non si può distruggere”, lo dimostra applicando la topologia alla pratica nella sua performance dove seduto alla scrivania e armato di pietra converte la materia che gli capita sottomano. E continua la sua indagine scientifica “Il materiale è fondamentalmente innocente, sono i nostri modi di fare le cose che sono così folli e strani”.In “A Scottish conspiracy(2010)” espone lo spettatore ad atmosfere richleriane narrando le storie intrecciate di capi indiani discendenti da coloni scozzesi del Seicento e di donne Cherokee, con un tasso di irriverenza allo stato puro.
La ricerca di un dialogo tra arte e scienza accompagna lo spettatore verso la fine della mostra. In “Particle Word Theory (2020)” sono le parole che si fanno mezzo artistico proprio come le particelle elementari si combinano tra di loro per restituirci la realtà. Da qui il suo amore per le stesse che finisce per fondersi nella sua opera con gli altri mezzi espressivi.
Tutto questo rappresenta la grandezza di Durahm ovvero lo stravolgimento dei canoni artistici occidentali, attualizzando e trascendendo le sperimentazioni già viste in Duchamp o Magritte, per dare tramite la sensibilità dell’artista vita alla materia. Concludendo citando una sua riflessione:«Non ho mai immaginato di creare un’opera d’arte dal mio stesso pensiero; non ho mai un piano prima della fine. Mi considero ugualmente uno scultore, è che scolpisco solo quello che appare davanti a me».

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