Gli spettri di Miyazaki.

mononoke locaDiretto da Hayao Miyazaki, ‘Principessa Mononoke’ tratta problemi decisamente universali e gravi, come il tentativo di uomini e donne di vivere in armonia tra loro e con lo spirito della natura. Con la bellezza mozzafiato degli acquarelli di Miyazaki, personaggi profondamente commoventi e descrizioni del mondo naturale altamente evocative, la storia prende vita superando i tradizionali limiti sia dell’animazione che del cinema in live-action.

Nel il film ci sono tutti i temi cari a Miyazaki: abitanti di antiche località che cercano di mantenere il loro stile di vita; esseri umani che cercano di sopravvivere in luoghi selvaggi; il conflitto tra ambiente e progresso; la bellezza e la maestosità del mondo animale; la possibilità per bene e male di convivere nella stessa persona; e, soprattutto, la potenza esercitata dai miti sulla nostra immaginazione e sulla nostra mente.

Miyazaki riesce a combinare il duro realismo e le sequenze d’azione dell’epica samurai; un insieme di personaggi maschili e femminili ugualmente forti, impegnati a combattere per ciò in cui credono; e un viaggio mistico attraverso la mitologia animista, ottenendo alla fine qualcosa che raramente si è visto al cinema: un mondo originale interamente ricreato per una storia complessa e adulta realizzata in animazione. Miyazaki ha indicato come possibile pubblico per Principessa Mononoke “chiunque abbia finito le scuole elementari”. E ha dato vita al suo mondo con crudo realismo, rivelando con dettagli espliciti la brutalità della guerra e l’odio profondo tra gli esseri umani.Princess-Mononoke

Miyazaki ha creato una piccola cittadina di frontiera, Tatara Ba o la Città del Ferro, che potrebbe trovarsi ai confini di qualsiasi territorio selvaggio, americano o giapponese, una cittadina che somiglia a quelle viste tante volte in western come Sfida infernale. Ha popolato il suo villaggio con personaggi appartenenti a gruppi sociali marginali o a quelle minoranze oppresse che quasi mai appaiono nei film giapponesi. E li ha raffigurati come avidi, ambiziosi e spietati, con molte di quelle qualità tanto preziose per la vita di frontiera, ma anche tanto disastrose per l’ambiente.

Traendo ispirazione dal folklore giapponese, oltre che dalla propria fertile immaginazione, Miyazaki ha quindi dato vita ad un pantheon di divinità e di creature della foresta. Alcune delle sue creazioni, come gli spiriti del bosco (i Kodama) affondano le proprie radici in antichi racconti giapponesi. Altre traggono ispirazione da classici della letteratura mondiale, come la pincipessa Mononoke, una ragazza allevata dai lupi che vive in modo primitivo, i cui antecedenti possono essere identificati in fonti occidentali, quali Romolo e Remo, “Il libro della giungla” di Rudyard Kipling o Il ragazzo selvaggio di François Truffaut. Mononoke è un personaggio originale, che prova empatia sia per gli esseri umani che per gli animali, e il suo destino è quello di fare da tramite tra questi due mondi sempre più distanti tra loro.
Nei film raramente la natura può dire la sua sulla storia che viene raccontata, ma in Principessa Mononoke Miyazaki accorda agli animali e allo spirito della foresta una voce appassionata. Nel film di Miyazaki la natura non è quindi solo un oggetto, ma un mondo scintillante e vivo che assume la forma di enormi animali dotati di eloquio.

MononokeLo scopo di Miyazaki non è mai stato quello di portare sullo schermo una ricostruzione accurata del Giappone medioevale, ma piuttosto di rappresentare l’origine dell’apparentemente insolubile conflitto tra la natura e la moderna civiltà industriale, un conflitto che perdura fino ai nostri giorni. Facendo ciò, Miyazaki evita di mettere in scena personaggi solo malvagi ed eroi senza macchia. Gli uomini che distruggono l’ambiente non sono poi così cattivi, visto che cercano semplicemente di farcela in un mondo che li ha spinti al limite della sopravvivenza. D’altra parte San e gli dei della foresta non hanno solo nobili intenti; la lunga e perdente battaglia contro gli umani ha indurito i loro cuori, escerbato la loro rabbia e li ha profondamente divisi tra loro. Eppure, nell’interazione tra i due gruppi – per quanto difficile da raggiungere – si realizza qualcosa di magico.

Principessa Mononoke si distingue non solo per la sua storia complessa, che può essere letta a diversi livelli, ma anche per il suo straordinario realismo ottenuto grazie ad una fluidità del movimento dei personaggi e ad un dinamismo delle scene di azione che gli consentono di superare i consueti limiti dell’animazione e del cinema in live-action. Rifuggendo dal tradizionale stile tondeggiante e grazioso della maggior parte dei cartoni animati, Hayao Miyazaki dà vita ad un ambiente naturale fantasioso in cui gli animali, le montagne, i laghi e le praterie rispondono a criteri estetici estremamente realistici dai tratti talvolta esasperati.

Per ottenere questo look, Miyazaki ha fatto ricorso sia ai tradizionali frame disegnati a mano per i quali è famoso, sia all’animazione realizzata al computer. Infatti per questo film, per la prima volta, il regista giapponese ha fatto un ampio uso della tecnologia digitale, arricchendo ulteriormente il suo lavoro sul piano visivo. Collaborando strettamente con Yoshinori Sugano, capo del settore della computer grafica alla Ghibli, Miyazaki ha utilizzato i computer per creare sequenze tridimensionali come quelle in cui riccioli a forma di serpente spuntano dal corpo del dio demone, o i maestosi spostamenti del gigantesco dio che viaggia nella notte.

Miyazaki ha fatto in modo che queste sequenze high-tech si integrassero perfettamente con quelle disegnate a mano per dare ai suoi personaggi una consistenza quasi umana. Questo ha richiesto l’uso di un nuovo software in grado di emulare le pennellate, le sottili linee di contorno e tutte le altre caratteristiche dell’animazione realizzata con i disegni tradizionali. Spiega Sugano: “Fondamentalmente volevamo sfruttare le potenzialità della computer grafica mantenendo però nelle immagini l’effetto visivo del disegno fatto a mano. In questo modo la gamma delle cose che siamo riusciti a realizzare è diventata molto più ampia”.

Ci sono voluti più di tre anni per realizzare Principessa Mononoke, con circa 144.000 disegni fatti a mano e immagini generate al computer che hanno dato vita ad un nuovo standard nello stile narrativo e visivo dell’”anime”, la popolarissima industria dell’animazione giapponese che crea prodotti per la televisione e per il cinema. Circa un 10% di Principessa Mononoke è stato prodotto al computer.

I precedenti film di Miyazaki erano stati realizzati tutti interamente a mano, con ciascun fotogramma disegnato e colorato a mano dagli artisti dello studio. Questa volta però Miyazaki ha deciso di avvalersi della tecnologia informatica più avanzata. Ha così ottenuto una maggiore fluidità dei movimenti e un maggior realismo rispetto ai tradizionali anime. Le riprese dei salti mozzafiato, dei combattimenti con le spade e delle poderose galoppate sono estremamente dinamiche, con una qualità che solo l’animazione disegnata a mano riesce a raggiungere; mentre le immagini generate al computer trasmettono quell’immediatezza e quel senso di presenza fisica che di norma proviamo guardando un film in live-action.

Inoltre l’inserimento di immagini digitali elaborate al computer non compromette quella capacità tutta di Miyazaki di evocare atmosfere ed emozioni grazie all’uso nei suoi disegni di ombre e sfumature. La sua foresta primordiale non appare solo come l’ennesimo fondale dipinto, ma come una presenza viva, il cui mistero e la cui bellezza tranquilla e profonda suscitano stupore. C’è la sensazione che Miyazaki abbia catturato nella foresta degli dei-animali qualcosa di realmente esistito in un tempo remoto. La straordinaria attenzione prestata ai dettagli, l’accuratezza con la quale sono state rese la ruvidezza e la consistenza di ogni tronco d’albero, permette alle immagini di Miyazaki di superare i consueti limiti dell’animazione. Ci pare quasi di poter toccare l’umidità notturna sulle staccionate di legno, sentire il calore della fornace e avvertire nelle narici il fumo che sale dal mulino…

“In questo film – afferma  Hayao Miyazaki – ci sono pochi di quei samurai, signori feudali e contadini che di solito appaiono nei film in costume giapponesi. E quelli che ci sono appaiono nei ruoli più marginali. Gli eroi principali di questo film sono i furiosi dei delle foreste della montagna, e quei personaggi che raramente fanno la loro comparsa sul palcoscenico della storia. Tra questi, i membri del popolo dei fabbri Tatara, gli artigiani, i braccianti, i minatori, i carbonai e i conducenti di carri, con i loro cavalli e i loro buoi. Portano armi e hanno quelli che potremmo definire come i sindacati dell’epoca, le loro corporazioni di arti e mestieri. I terribili dei della foresta, contro i quali si battono, prendono le sembianze di lupi, cinghiali e orsi. Il Grande Spirito della foresta sul quale è incentrata la storia è una creatura immaginaria dal volto umano, il corpo di un animale e grandi corna legnose. Il ragazzo protagonista è un discendente della tribù degli Emishi, che fu sconfitta dai governanti giapponesi Yamato e scomparve in un’epoca remota. La ragazza ha i tratti di una scultura in creta del periodo Jomon, un’era pre-agricola del Giappone, durata fino all’80 d.C. circa.
Gli ambienti principali in cui si svolge la storia sono le impenetrabili foreste degli dei, il cui accesso è vietato agli esseri umani, e le fucine del clan Tatara, che somigliano ad una fortezza. I castelli, le città e i villaggi dediti alla coltivazione del riso, che di norma sono gli ambienti in cui si svolgono le storie in costume giapponesi, qui restano sullo sfondo. Al loro posto abbiamo cercato di ricreare l’atmosfera di un Giappone ancora coperto da fitte foreste, con pochi abitanti e nessun argine, con una natura ancora incontaminata, con montagne lontane e vallate solitarie, ruscelli di acqua limpida, stretti sentieri pietrosi e non battuti e una profusione di uccelli, animali e insetti”.

“Abbiamo utilizzato questi ambienti – continua  Hayao Miyazaki – per sottrarci alle convenzioni, ai preconcetti e ai pregiudizi relativi ai tradizionali drammi storici e per avere maggior libertà nel delineare i nostri personaggi. Recenti studi di storia, antropologia e archeologia ci dicono che il Giappone ha un passato molto più ricco e vario di come comunemente viene rappresentato. La povertà di immaginazione dei nostri drammi storici è in gran parte dovuta all’influenza esercitata dai cliché presenti nelle trame dei film.
Il Giappone dell’era Muromachi (1392-1573), periodo in cui si svolge la nostra storia, era un mondo in cui il caos e il cambiamento costituivano la norma. Successiva all’era Nambokucho (1336-1392), durante la quale due corti imperiali si erano fatte la guerra per la supremazia nel Paese, l’era Muromachi è stata un’epoca piena di ardimento, di clamoroso banditismo, di nuove forme d’arte e di ribellione contro l’ordine stabilito. E’ stata l’epoca in cui ha cominciato a prendere forma il Giappone di oggi. E’ stata diversa sia dall’era Sengoku (1482-1558), quando eserciti professionisti combattevano in guerre organizzate, sia dall’era Kamakura (1185-1382) quando i potenti samurai si scontravano per il dominio sul territorio. E’ stata un’era più fluida, in cui non c’erano distinzioni tra contadini e samurai, in cui le donne erano più libere e audaci, come è possibile capire guardando le ‘shokuninzukushie’, immagini dipinte di donne dell’epoca intente a compiere i lavori più diversi. In quel mondo il confine tra la vita e la morte era più netto. La gente viveva, amava, odiava, lavorava e moriva senza le ambiguità di oggi.
In ciò risiede, credo, il significato di fare un film come questo in anni di caos mentre ci accingiamo ad entrare nel XXI° secolo. Con questo film non pensiamo di risolvere problemi globali. Non ci può essere un lieto fine dello scontro tra gli dei della foresta e gli uomini. Ma anche nel bel mezzo di odio e carneficine resta un po’ di quell’amore per cui vale la pena di vivere. Incontri meravigliosi e cose bellissime accadono ancora.
Nel film abbiamo messo in scena l’odio, ma solo per mostrare che ci sono cose più importanti. C’è una maledizione, ma solo perché volevamo mostrare la gioia della salvezza. Cosa ancora più importante, mostriamo come un ragazzo e una ragazza arrivino a comprendersi, e come la ragazza mostri il suo cuore al ragazzo. Alla fine del film la ragazza dice al ragazzo: “Ti amo Ashikata, ma non posso perdonare gli esseri umani”. Il ragazzo sorride e le risponde: “Cerchiamo di convivere in pace”. Questa scena riassume l’idea di film che volevamo fare”.

I commenti sono chiusi.