L’esposizione è ideata e curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, che ha raccolto le opere più significative dell’artista che più di ogni altro fu la cerniera fra Occidente e Oriente.
La rassegna si sviluppa intorno a ventidue capolavori del padre dell’astrattismo, provenienti da otto musei russi (tra i quali l’Ermitage), accompagnati da dipinti di maestri dell’avanguardia russa e da uno straordinario nucleo di oggetti rituali delle tradizioni polari e sciamaniche. Queste ultimi, appartenenti alla Fondazione Sergio Poggianella, che custodisce una delle raccolte più ricche sull’argomento, erano proprie delle lontane e sterminate regioni siberiane, da cui Kandinsky trasse profonde ispirazioni durante dagli studi etnoantropologici dei suoi anni giovanili e che contribuirono, insieme alle tradizioni contadine russe, allo sviluppo del suo percorso intellettuale verso l’astrazione come forma della spiritualità.
I lavori presentati a Vercelli appartengono prevalentemente agli anni che Kandinsky trascorse fra Monaco e la Russia, tra il 1901 e il 1922, anno in cui fu costretto ad abbandonare per sempre la Russia sovietica, che pure aveva sostenuto nei primi anni della rivoluzione, per accettare l’incarico offertogli da Walter Gropius di dividere con Paul Klee l’insegnamento al Bauhaus.
È questo il momento in cui l’artista giunse alla convinzione che per trasporre sulla tela sentimenti e pensieri non fosse necessario raffigurare oggetti, paesaggi, i volti della vita quotidiana ma che, tramite il colore, la forma, la loro combinazione e il ritmo della composizione fosse possibile esprimere gli stati d’animo e le emozioni provocati sia dal mondo esterno che dai moti profondi dello spirito umano.
Wassily Kandinsky, a tutt’oggi, suscita non soltanto ammirazione, ma anche interrogativi e rimane in sostanza un mistero irrisolto. Come e perché, all’alba del secondo decennio del Novecento, il pittore giunse alla convinzione che per trasporre sulla tela sentimenti e pensieri non fosse necessario raffigurare oggetti, paesaggi, i volti della vita quotidiana? “Già nel saggio Lo spirituale nell’arte, pubblicato nel 1911 (ma portato a compimento sin dal 1909) – spiega Eugenia Petrova – Kandinsky sosteneva che tramite il colore, la forma, la loro combinazione e il ritmo della composizione è possibile esprimere gli stati d’animo e le emozioni provocati sia dal mondo esterno che dai moti profondi dello spirito umano. Già negli anni immediatamente successivi l’artista confermò le proprie teorie in alcuni quadri che prefiguravano l’astrattismo. In uno di questi, il San Giorgio (1911, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo) il cavaliere raffigurato sulla tela mentre uccide il drago non conserva niente dell’iconografia tradizionale. L’energia cinetica del pennello, espressa in macchie di rosso, blu e altri vivaci colori, il triangolo acuto e allungato che tocca un punto nella parte bassa della composizione rappresentano la traduzione del noto soggetto nel linguaggio del colore e del ritmo”.
Il lungo e profondo viaggio che condusse Kandinsky all’astrazione, era cominciato negli anni della sua formazione universitaria, quando i suoi studi di legge lo avevano portato ad analizzare i fondamenti del diritto nelle tradizioni delle sterminate campagne della Russia, fra le lontane popolazioni della Vologda, in Siberia, dove da etnologo approfondì la vita, gli usi e l’economia dei sirieni, una piccola etnia cui dedicò alcuni articoli scientifici, incontrando anche le pratiche popolari derivanti dalle antiche ritualità sciamaniche, dalla cui profonda spiritualità fu fortemente colpito.
Molti elementi che si ritrovano nella sua opera richiamano quella esperienza, dalla figura del cavallo e del cavaliere, al tamburo rituale, alle figure simboliche di animali.