Io i festival li odio #2.

La seconda puntata del mio odio verso i festival giunge un po’ in ritardo. Sempre a causa di quello per cui sproloquiavo nel mio ultimo intervento: la vita vera che si intromette troppo. Scadenze, lavori, spesa al supermercato e vita notturna per locali. Sono riuscito a vedere solo altri tre film (tutti in un giorno poi!), e poi addio, Festival di Roma. Un saluto anticipato di quattro giorni prima della tua fine.

asylumPer la prima e unica volta sono andato a una proiezione delle 9. Sono arrivato in ritardo di cinque minuti, ma non è stata colpa mia. Bensì dell’Atac (capro espiatorio perfetto) e di improvvisi bisogni mattutini che ho dovuto espletare in un bar poco raccomandabile di Piazzale Flaminio. Problemi intestinali a parte, veniamo a noi e a Stonehearst Asylum, di Brad Anderson.

Per la prima metà sembrava la perfezione fatta racconto vittoriano: tutti i topos del genere, con i suoi corridoi bui, un manicomio abbandonato nella brughiera inglese, una bellezza impazzita, e l’orrorifico nascosto dietro ogni angolo. Il dottor Newgate giunge a Stonehearst per un apprendistato medico, si innamora di una delle pazienti, Eliza Graves (mi ero dimenticato dell’esistenza di Kate Beckinsale. Pensavo fosse rimasta in Underworld), e poi scopre un complotto che coinvolge tutto l’istituto, in cui non si distinguono più i matti dai sani. A un certo punto non capivo più se fossero seri o se stessero prendendosi in giro da soli. La storia, come dicevo, dopo la metà, crolla. Tocca punte di mélò che neanche nei migliori episodi de Il Segreto. E man mano che questa cosa va avanti, si comincia a notare che un po’ il tutto non regge. Neanche i costumi che, in un film del genere, dovrebbero essere non la cosa più importante. DI PIU’.

tokyo-fianceeVerso l’ora di pranzo sono andato a una proiezione di Alice nella Città del film tratto da Né di Eva Né di Adamo di Amélie Nothomb. Stefan Liberski ne fa un film intitolato Tokyo Fiancée, che riprende abbastanza fedelmente il racconto della Nothomb: una giovane Amélie, innamorata del paese dov’è nata quasi per caso (il Giappone), si trasferisce a Tokyo in cerca di fortuna e incappa in un ragazzo di cui crede di innamorarsi perdutamente. Le differenze tra occidente e oriente però si fanno sentire. E se buona parte dell’ironia sagace della Nothomb si perde, il film la sostituisce con un po’ di freschezza da indie movie belga. Come ho già detto, ero a una proiezione di Alice nella Città, quindi circondato da ragazzi di liceo che urlavano la qualsiasi cosa durante il film. Soprattutto in scene sentimentali (per non dire esplicite. Ci siamo passati tutti, su).

fino-a-qui-tutto-beneHo dato il mio definitivo addio al festival con il film che, genuinamente, mi è piaciuto maggiormente. E, non a caso, ha anche vinto vari premi, fra cui miglior film italiano del festival (sì, io ho votato il massimo, va bene?). Fino a qui tutto bene, diretto da Roan Johnson, che torna dietro la macchina da presa dopo I primi della Lista, affrontiamo l’ultima manciata di giorni di un gruppo di amici alla soglia della vita vera. E se una volta quella soglia era intorno alla prima metà dei venti, ormai oggi è sui trenta. Anche un paio di anni un po’ più in là in realtà. Si deve lasciare casa in affitto. Finita l’università, finiti i festini, finito tutto. E insieme alla casa, vengono smontate tutte le vite dei protagonisti. Le loro storie emergono senza neanche bisogno dell’uso di orridi flashback. Accade tutto sotto i nostri occhi, attraverso le loro voci. Ed è vero! Si sente la verità della storia, è palpabile. Come la sentiranno tutti coloro che vedranno il film e che hanno vissuto fuori, in una casa con altre persone, la tua famiglia surrogata giovane con la quale fare cazzate che dopo, non ti potrai permettere più. C’ho anche pianto. Un poco.

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