I giganti della Montagna.

Al teatro dell’Orologio di Roma, dal 20 gennaio al 1 febbraio 2015, arrivano i giganti della montagna di Luigi Pirandello, con l’adattamento e regia Kira Ialongo, con Daniele Bianchini, Federico Caiazzo, Domenico Casamassima, Martina Catuzzi, Francesca Ceci, Emanuele Gabrieli, Emanuele Natalizi, Chiara Oliviero, Caterina Salerno, Davide Sapienza e Francesco Soleti.

locandina_gigantiIl nuovo allestimento firmato Teatro Azione vuole essere esperimento di un progetto produttivo dove giovani talenti neo-diplomati nella nostra scuola possano lavorare al fianco di attori con maggiore esperienza di palcoscenico, sia ex allievi ormai in carriera sia insegnanti della scuola stessa. Un progetto dunque che permette, fondendo esperienze diverse, di arricchirsi dei differenti percorsi e di essere ancora palestra, ricerca, laboratorio, oltre che pratica di lavoro.

In un luogo non precisato, fatto di crepuscolo, lì dove il giorno e la notte s’incontrano “agli orli della vita” vive, in una villa detta “La Scalogna”, un’umanità lontana dalla realtà: gli Scalognati, mendicanti, reietti, i diversi che stanno lontano dalla società. Lì, guidati dal Mago Cotrone, “creatore di realtà”, trasformano i propri sogni (e i propri incubi) in fantasmi reali e immagini che racchiudono “tutto l’infinito ch’è negli uomini” e stanno “piuttosto placidi e pigri; seduti” a concepire enormità.

In questo luogo, dove regna un delicato equilibrio tra sogno e ombra, giunge un gruppo di attori, guidati da Ilse, la Contessa, che porta avanti la sua crociata per riportare la Poesia tra gli uomini. Portano in scena “La favola del figlio cambiato” scritto da un Poeta che si uccise per amore della Contessa che, pur attratta, lo rifiutò. Nonostante la bellezza del testo il mondo ha rifiutato la rappresentazione e la compagnia, ormai ridotta a pochi membri, gira, povera e stracciata, nella speranza che qualcuno sappia apprezzare la loro opera.

Davide Sapienza (Cromo) Francesco Soleti (Battaglia) Caterina Salerno (Diamante) Chiara Oliviero (Ilse) Emanuele Natalizi (Il conte)Cotrone intuisce subito che l’incontro tra questi due mondi (due facce della stessa medaglia), gli Scalognati e i Comici, potrebbe far nascere una nuova via; intuisce che la potenza delle immagini-fantasma create dagli uni, unita al mestiere degli altri potrebbe, forse, essere la risposta a un mondo che si è inaridito per il duro lavoro, che ha perso “lo spirito”: per creare “altri fantasmi” che sappiano trovare la via giusta per far tornare proprio questo spirito tra gli uomini. Propone agli attori di restare con lui e con gli Scalognati: è solo lì, rimanendo nella Villa che la Favola può vivere davvero, attraverso la magia che rende le immagini del Poeta realtà. Ma la proposta di Cotrone viene rifiutata come non viene capita la possibilità offerta dalla magica notte nell’Arsenale delle Apparizioni, dove l’immensità e l’infinito si spiegano davanti agli occhi dei Comici, tramite apparizioni, fantocci che prendono vita, luci e suoni celestiali. La Contessa non riesce a concepire che l’opera possa vivere per se stessa, senza chiedere nulla: “Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini!”. D’altro canto i suoi compagni attori non riescono a comprendere, non credono che possa nascere un “infinito”, che vada oltre il razionale, non credono, alla fine, che il teatro possa essere “magia”.

Questo segna la loro fine, Cotrone comprende di non aver incontrato chi si aspettava di incontrare e propone agli attori di portare la Favola tra gli uomini chiamati “I Giganti della Montagna” (“sono detti così, perché gente d’alta e potente corporatura. L’opera a cui si sono messi lassù, l’esercizio continuo della forza, il coraggio che han dovuto farsi contro tutti i rischi e pericoli d’una immane impresa, scavi e fondazioni […] non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po’ bestiali”).

Emanuele Natalizi (Il Conte)L’opera si conclude così, con l’arrivo dei giganti in rumore e luce e spavento, e le parole di un’attrice della compagnia “Ho paura. Ho paura”. Il terzo atto non fece in tempo a nascere, giunge prima la morte di Pirandello che ci lascia attraverso le parole del figlio Stefano, la sua idea sul finale dell’opera. In questo racconto si assiste alla disfatta della Compagnia che presentando lo spettacolo di fronte ai Servi dei Giganti (i loro padroni sono troppo presi dai lavori per assistere) scatena l’ira e l’incomprensione di queste creature non abituate al teatro che, alla fine, sbranano Ilse.

L’opera finirebbe in un dramma senza luce e speranza (e da molti è interpretata così), ma a noi piace pensare che ci sia altro nelle parole finali di Cotrone: “Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto, come fantocci ribelli, i servi fanatici dell’Arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi
ha altro da fare, che credere in essi”.

Pirandello chiama questa sua ultima opera “Mito”. “Siamo partiti – afferma la regista – dall’idea che il mito, che è narrazione delle origini del mondo, delle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi hanno raggiunto la forma presente, il mito che è rivelatore di misteri, abbia bisogno di essere interpretato. Non spiega, ma svela e chiede la nostra partecipazione attiva affinché i nostri pensieri e i nostri sensi interpretino il racconto. L’incontro tra Cotrone e Ilse è “mitico” perché potrebbe creare una nuova “origine” o perché ci racconta l’origine del nostro mondo (culturale, umano, sociale), un c’era una volta dove avvenne questo: che il teatro, cui venne offerta la possibilità di cambiare, per uscire dalla sua crisi, l’occasione di trovare nuove forme che nascono solo dalla vera necessità di comunicare, non volle staccarsi dalle sue abitudini, non volle diventare altro da sé. E allora morì, ucciso proprio da quelli cui riteneva di essere più utile. Questo è il nostro tentativo, chiedere non tanto di di capire, quanto di interpretare, non tentare di spiegare, fa nascere domande e non risposte”.

Chiara Oliviero ( Ilse) ed Emanuele Natalizi (Il Conte)“Diceva Strehler – continua Kira Ialongo – “i giganti siamo noi, in agguato nella vita di ogni giorno, ogni qual volta ci rifiutiamo alla poesia e, con la poesia, all’uomo”. Noi ci permettiamo di aggiungere: Pirandello, lasciando incompiuta l’opera sembra chiedere a noi una conclusione; che il Mito ci racconti qualcosa che è inevitabile (la morte del Teatro in un mondo che non lo può più comprendere) o che sia forse il suggerimento per un’altra soluzione?
Siamo noi a dover scrivere la conclusione dei Giganti della Montagna: ognuno di noi ha i propri giganti da affrontare, ognuno di noi deve trovare il modo per farlo. E forse, una via c’è, come dice Cotrone: “Basta crederci. Come ci credono i bambini”.

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