“Il lungo buio di ‘Katyn’: prima dei titoli di coda era necessario per poter in silenzio salutare le migliaia di vittime di quell’eccidio”. Così Andrzej Wajda, regista cinematografico e teatrale, a conclusione della proiezione al Bari Film Fest del suo capolavoro del 2007 incentrato sulla strage di ottomila ufficiali polacchi da parte della polizia segreta di Stalin nella foresta di Katyn, vicino Smolensk, nel 1940. In quel tragico evento, che Mosca ammise solo cinquanta anni dopo, al termine della guerra fredda, morì anche il padre del regista. Furono uccisi con pallottole tedesche, che la Germania aveva dato alla Russia con cui in quel momento aveva ancora buoni rapporti. Da qui la lunga menzogna del Cremlino, fino alla scoperta delle fosse comuni da parte dei nazisti che tre anni dopo invasero l’Unione Sovietica.
“Ho fatto questo film – ha spiegato il regista polacco – non solo perché lì morì mio padre, ma perché mi è sempre rimasto dentro il ricordo di quando, teenager, guardavo la disperata e inutile ricerca di mio padre da parte di mia madre. ‘Katyn’ vuole essere un omaggio a quelle donne, ferite profondamente, sole ma coraggiose”. Una pagina di storia polacca che nel quasi novantenne regista, pluri-premiato in tutto il mondo, suscita tante domande, storiche e culturali. “Perché – si domanda – ucciderli e non invece solo catturarli? Perché questo eccidio non ha, ancora oggi, riflesso nella letteratura polacca?”.
Dopo aver ringraziato il neorealismo italiano per averlo aiutato nella stesura di “Katyn’, Wajda precisa: “Il film dura due ore perché la vicenda richiede tempo per essere capita bene in tutti i suoi aspetti, molti dei quali scoperti attraverso i diari delle donne rimaste sole: nella notte in cui tutte le famiglie degli ufficiali trucidati furono deportate in Kazakhstan affinché non creassero un movimento di ribellione, ci furono anche ufficiali russi che cercarono di opporsi all’ordine di Stalin”.
Figura rilevante nel mondo del cinema europeo, Wajda ha portato sullo schermo l’evoluzione sociale e politica della Polonia con particolare sensibilità ma anche fervore e rifiuto di scendere a compromessi nel trattare difficili tematiche, fin da “Generazione” (1955), suo debutto cinematografico, in cui mostra l’amarezza e la disillusione riguardo ad un cieco patriottismo e agli ‘eroi di guerra’: un film che segna la sua collaborazione con l’attore Zbigniev Cybulski, con il quale girò altri due film, ‘Kanal-I dannati di Varsavia’ (1957) e ‘Cenere e diamanti’ (1958), prima che il James Dean polacco morisse nel 1967 in un incidente automobilistico. Un attore rimasto nel cuore di Wajda per la sua sfrontatezza, ma anche umanità, dentro e fuori dal set: “Per ‘Generazione’ Cybulski si rifiutò in modo perentorio di indossare gli abiti di scena che erano previsti e volle recitare con ciò che indossava al momento: occhiali scuri – allora rarissimi in Europa – pantaloni e giacca americani e scarpe da tennis particolari”. “Non forzandolo a cambiarsi – aggiunge divertito Wajda– capii che potevo essere un buon regista, perché sul set si è un team e bisogna saper trovare un punto d’incontro”. Un attore Cybulky che è poi diventato un idolo per i teenager polacchi: “Una volta dei giovani hanno disegnato una sua gigantografia, un enorme murales e la cosa si è ripetuta in altre città”.
Wajda, a cui la Fipresci consegnerà stasera la targa di platino del 90esimo anniversario – riconoscimento della sua prolifica carriera – ha ricordato che venne proprio dal Sindacato Internazionale dei Critici Cinematografici il primo premio della sua carriera al Festival di Venezia per “Ceneri e diamanti”.
”La prima del film non era stata vista bene da Mosca, che aveva relegato la proiezione in una sola sala centro di una piazza – racconta il regista polacco – tanta, tantissima gente però si presentò e chiese di vedere il film. Intervenne la polizia e allora, davanti a questo fatto, il Comitato centrale del partito decise la proiezione in più sale, ma non con quel titolo e con sul manifesto la scritta “Proiezione privata” per scoraggiarne la visione. A Venezia il film, benché proiettato in una sala di periferia, fu visto dal pianista polacco Rubinstein, che, ammaliato, invitò ad una proiezione il regista francese René Clair che si diede da fare perché fossi premiato”.
Andrzey Wajda è una garanzia di onestà e impegno sociale per la storia e la cultura del popolo polacco, come dimostra anche la sua partecipazione attiva alla politica del Paese, in qualità di senatore. “Quando Walesa decise che nel primo governo di Solidarnosc dovevano esserci solo persone note alla gente – ricorda Wajda – non potevo dire di no: alle parole dovevano seguire i fatti. Ero andato anche a Danzica per seguire la rivolta”. Un periodo nella storia polacca che ha interessato molto la produzione di Wajda. “Dopo ‘L’uomo di marmo’, sul periodo stalinista, mentre ero a Danzica molti mi chiesero perché non facessi un film anche su Solidarnosc ed è allora che ho pensato a ‘L’uomo di ferro’ (1981), mostrato a Cannes (premio Palma d’Oro) prima che il governo bloccasse la rivolta di Solidarnosc: è l’unico film ‘su commissione’ da me fatto. La censura mi invitò a tagliare 20 frammenti, ma i lavoratori di danzica e Katovice mi hanno chiesto di non farlo. E così è stato”.
Anni di rivolta che Wajda ha poi ripreso con il suo “Walesa-Uomo di speranza” (2014, e primo suo film in concorso a Venezia), che racconta il leader di Solidarnosc, con cui il regista ha instaurato negli anni un ottimo rapporto di stima reciproca. E per questo lavoro Wajda ringrazia molto la scomparsa giornalista Oriana Fallaci. “Inizialmente avevamo deciso di utilizzare solo due frammenti dell’intervista, ma poi, visto anche come Walesa parla meglio, si ‘pavoneggia’, con le donne, abbiamo deciso di utilizzarne sette. Grazie Oriana”.