Jackie, quel vestito macchiato di sangue

Esce nelle sale il 23 febbraio, Jackie di Pablo Larraín, candidato a tre premi Oscar, vincitore a Toronto del premio del pubblico e a Venezia della migliore sceneggiatura.

jackie12La narrazione perfetta di ciò che successe alla first lady, un’eccezionale Natalie Portman nei panni di Jacqueline Kennedy, quando il presidente Kennedy venne assassinato.

A Dallas il 22 novembre 1963 Jacqueline è a fianco del marito mentre muore colpito da un cecchino, ha solo 34 anni ma vive già da due alla Casa Bianca come first lady, ha due figli e ne ha persi due.

Abbiamo visto spesso le immagini della macchina presidenziale a Dallas e dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, abbiamo visto film e ricostruzioni, ma la first lady con il tailleur rosa macchiato di sangue ha una sua storia da raccontare.
Quello che la macchina da presa di Larraín riprende, seguendo la perfetta sceneggiatura di Noah Oppenheim è il punto di vista di Jackie dai primi momenti di shock e smarrimento ai successivi di estrema puntigliosità ai limiti dell’ipocrisia nell’organizzazione minuziosa del funerale.

Ed è proprio il funerale, il capolavoro che disvela la grandezza della figura di Jackie che, volendo creare una commemorazione del marito alla pari di quella di Abraham Lincoln, in realtà contribuisce ulteriormente a rafforzare il suo mito. Il mito di una donna forte, quasi una regina, che velata di nero segue il feretro come un’eroina tragica. Lei stessa sembra accorgersene, in uno dei tanti dialoghi col prete (un perfetto John Hurt): “Tutto quello che ho fatto per il funerale non è per lui, né per il suo lascito, ma per me”.

Un’icona di stile, un’eroina, ma terrena molto terrena, che appena arrivata alla Casa Bianca col feretro del marito, non può fare a meno di pensare al suo nuovo status, che proprio come la vedova Lincoln potrebbe essere la povertà, ma di certo non più il potere della moglie del presidente, “Esistono due tipi di donne, quelle che vogliono il potere a letto e quelle che lo vogliono nel mondo”. E proprio mentre ripercorre le stanze della Casa Bianca, tra ricordi di party sontuosi e di notti solitarie, la vediamo in solitudine abbandonarsi al dolore e allo smarrimento per poi riuscire a mantenere il suo piglio e la sua forza, tanto da rilasciare la prima intervista addirittura il 29 novembre, al giornalista di Life Theodore H. White (Billy Crudup nel film), pubblicata poi il 6 dicembre. È lei stessa a condurre l’intervista, come un racconto, a non voler essere registrata e a correggere le frasi che il giornalista appunta, a spiegare che non ci sarà un’altra Camelot ma che, proprio come nella battuta finale del musical che tanto amava il presidente, “non bisogna dimenticare” che per un breve momento c’è stata Camelot.

La costruzione del film poggia su diversi piani temporali, la cronaca precisa degli avvenimenti, l’intervista del 29 novembre ma anche inserti di filmati in bianco e nero (sia di repertorio sia ricostruiti) della prima trasmissione televisiva che anni prima, per volere proprio di Jackie, aveva trasmesso un tour della Casa Bianca.

jackie 1Il regista Larraín riesce a rendere bene l’ambivalenza della figura di Jackie, anche quando nel dolore riusciamo a sentirla sincera e umana ogni suo movimento, ogni sua parola anche intima la riporta a una realtà di ipocrisia che lei stessa alimenta e nella quale ha imparato così bene a vivere da diventare un personaggio iconico. La scena in cui dal finestrino dell’auto lei stessa guarda i manichini dei negozi già pettinati e vestiti come Jackie lascia intravedere quello che è diventata, quello che ha contribuito a diventare.

La figura di Jackie ne esce talmente reale, profonda nel suo modo di rapportarsi agli avvenimenti che la sua doppiezza risulta umanizzarla e quasi portarla fuori dall’icona, e questo è davvero merito di Larraín che anche qui non poteva perdere il suo sguardo lucido, quasi brutale di El Club o Post Mortem.

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