A casa nostra, il nazionalismo che avanza

Pauline, un’infermiera autonoma in un distretto minerario nel nord della Francia, cresce da sola i suoi due figli e si occupa di suo padre, un ex metalmeccanico. Devota e generosa, è amata dai suoi pazienti, che contano su di lei. Eppure nessuno vede che Pauline, che si trova ad affrontare una realtà sociale sempre più dura, sta lentamente intraprendendo un percorso che nessuno nella sua famiglia ha mai preso prima. Un partito nazionalista in crescita, in cerca di rispettabilità, utilizzerà a proprio vantaggio la sua popolarità facendone la propria candidata alle elezioni locali…

foto3Al cinema dal 27 aprile “A casa nostra” il film di Luca Belvaux che ha anticipato l’esito delle elezioni francesi 2017, perché racconta la storia di un’infermiera, Agnes Dorgelle, ispirata a Marine Le Pen, candidata del Front National.

Pauline l’infermiera, Stanko l’operaio, Jacques l’ex metalmeccanico, Berthier il dottore, e Nathalie la maestra; tutti hanno lo stesso status. Esseri umani pieni di contraddizioni, aspettative, speranze, qualche volta delusioni, bisogni, amore, sicurezza, e fiducia nel futuro. Tutti vengono a contatto gli uni con gli altri, si conoscono, recitano per se stessi e per gli altri, reagendo anche l’uno all’altro, formando una comunità paradossale, una società. Dove vivono, compongono il mondo. Sono il mondo. Un mondo fittizio nutrito della realtà di oggi. Storie individuali per narrare la storia più grande. Una società di personaggi per raccontare qualcosa sull’umanità.

“Sta accadendo qui in Francia, nella nostra terra, ogni giorno – afferma il regista -. È un discorso che sta diventando banale. Parole che vengono scatenate, disseminando un tanfo abietto che causa sempre meno fastidio. È una marea che si alza, erodendo le barriere antiallagamento. È un discorso che cambia a seconda del pubblico, che si adatta ai tempi, che segue il flusso. Un discorso che capovolge le parole, le idee e gli ideali, e li distorce. Un discorso che mette le persone l’una contro l’altra. E la gente passa, dapprima impercettibilmente, poi più chiaramente, dalla solitudine al rancore; dal rancore alla paura; dalla paura all’odio; e da lì alla rivoluzione, con la sua inevitabile eco di Révolution nationale. Se ne parla ed è visibile, ma tuttavia nulla viene fatto, lasciando una sensazione di déjà-vu, di impotenza, e anche di stupore. La sensazione che si sia provato di tutto, che ogni parola, ogni tentativo di controbattere si rivolti contro la persona che lo compie. Che ogni affermazione – politica, morale o culturale – sia definitivamente scontata e illegittima. Forse la finzione è l’unica risposta udibile, in quanto, come il discorso populista, si rivolge ai sentimenti, al subconscio, alla pancia. Proprio come i demagoghi, racconta delle storie. Ma al contrario di loro, che provano a far passare delle fantasie per realtà e che semplificano all’estremo, la finzione cerca di capire, di fornire un racconto della complessità del mondo, dell’umanità, e dell’epoca. Senza dubbio, soltanto la finzione può sollecitare nelle persone la più profonda commozione”.

foto1“Il nord della Francia – afferma Luca Belvaux – è una regione che ho ripreso spesso. La amo, probabilmente perché mi ricorda il paese dove sono nato; ma soprattutto, per quello che trasmette visivamente. Perché ogni regione racconta sempre la sua storia. Porta le tracce, cicatrici e memorie. I paesaggi, le città e i villaggi sono stati costruiti e riedificati, modellati dal genere umano, generazione dopo generazione. Ciò ha seguito le utopie e le pazzie di ogni età, e i bambini che giocano nei campi oggi trovano ancora granate che sarebbero dovute esplodere 100 anni fa. Scivolano giù dai cumuli di scarti strappati alla terra dalla forza delle braccia dei minatori. I contadini lavorano il terreno tra i cimiteri militari. Eppure, questa campagna è bella. All’alba, quando è blu, offuscata dalle nebbioline autunnali, nella fredda stretta del gelo invernale, scintillante nella rugiada primaverile. È bella a mezzogiorno, quando è verde, le colline rotolanti verso il mare. È bella di nuovo la sera, quando le città, anche lontane, si accendono di luci multicolori. Ed è tristemente cupa quando il genere umano la sfigura, squarciandola con le strade, coprendola con le aree industriali, i centri commerciali, le case popolari, le periferie e le città dormitorio, gli svincoli autostradali, i depositi e i magazzini. Questo contrasto è il cuore del film. Racconta il passato e il presente. Prevede il futuro. Perché la geografia struttura le vite delle persone, e può anche destrutturarle. Quella che era una vita rurale coerente è diventata “peri-urbana”, il discontinuo straripamento del confine della città, un mondo periferico, uno spazio marginale dove gli abitanti si sentono rifiutati, dimenticati. Privati della loro identità, del loro modo di vivere. Persone che erano, fino a ieri, cittadini, ora vivono come reietti, disadattati, al di fuori di un mondo che si sta reinventando. Questa geografia struttura anche il film, costruendo tensioni permanenti, visive o drammatiche, sociali, politiche o individuali. La tensione deriva da ciò che viene detto, ovviamente, e da quanto succede, ma anche da quello che viene visto. L’incoerenza di un atteggiamento, di un discorso o di una parola, privati o pubblici; il paradosso della violenza di una discussione quando tutto intorno ad essa trasmette un’impressione di benessere, di agio, di vivere insieme”.

“Mentre in un documentario ogni persona appare come un individuo che parla per sé, un personaggio è percepito dallo spettatore come una costruzione, una proposta in cui è possibile identificarsi o riconoscere qualcun altro, vicino o meno. Offre un’immagine sulla quale proiettare se stessi, un riflesso col quale identificarsi. Probabilmente perché siamo più aperti quando ci confrontiamo con un personaggio, più inclini a riconoscere noi stessi in lui”.

“Tra l’autore di narrativa, romanziere o cineasta – afferma il regista – e lo spettatore c’è uno scambio intimo, che a volte è quasi ignaro del subconscio. E mi piace pensare che quello che mi interessa, interessi anche ad un altro essere umano, e che ciò che mi sconcerta sconcerti anche altri, anche se a volte è incomprensibile, sia per loro che per me. Ho sempre realizzato i miei film con l’obiettivo di rispondere alle domande che facevo a me stesso (anche se ho raramente trovato le risposte). E nel formularle ho l’impressione di averle condivise con gli spettatori, alcuni dei quali hanno lasciato il cinema leggermente diversi rispetto a quando erano entrati. In più di 25 anni, grazie ai benefici dell’esperienza, sono cambiati il mio modo di scrivere, il mio modo di girare, la tecnica e i temi dei miei film. La sola cosa che non è mai cambiata è la mia maniera di approcciarmi ai personaggi, come li vedo e li amo, chiunque siano e da dovunque vengano. I trentenni in Parfois trop d’amour, la stramba coppia di Per scherzo!, la gente di Grenoble nella Trilogia, i lavoratori di Liegi in La raison du plus faible, il grande capo in Rapt, i 38 testimoni di Le Havre, o la parrucchiera di Arras e il suo filosofo parigino in Sarà il mio tipo?; li ho amati tutti allo stesso modo, li ho guardati con la stessa gentilezza. Alcuni mi hanno fatto ridere, altri mi hanno commosso o spaventato, ma in fondo, ho sempre scritto per loro. Pe raccontare le loro storie, le loro emozioni, anche se ho fatto sì che le mie domande diventassero loro, e le mie ansie le loro paure. Ho fatto sì che i miei problemi diventassero i loro. Una parte di me è trasposta in loro; quando scrivo, divento ognuno di loro. Erano tutti ancorati ad un territorio, parte di una storia. Non posso immaginare un personaggio al di fuori del luogo, del tempo e della società in cui vive. Anche qui racconto la storia di persone che vivono nel mondo di oggi in un luogo specifico. In una regione che è stata spaccata in due dagli sconvolgimenti della storia europea per secoli – in particolare due guerre mondiali e due rivoluzioni industriali in 150 anni. Questo ha lasciato tracce profonde, impronte e cicatrici, fratture nel terreno e nelle anime, oltre che nella società. Tutti i personaggi di A Casa Nostra, ognuno a modo loro, a seconda della loro età e delle loro esperienze, portano con sé una parte di questa storia. Alcuni la accettano, altri vogliono fingere che non esista; alcuni vogliono riscriverla per adattarla a loro stessi, ma tutti sono parte di quanto viene scritto e di quanto ha iniziato ad essere scritto molto tempo fa. Perché la storia non si ferma mai, è infinita. E duplice per natura. C’è la storia più grande, che viene scritta; e la storia privata degli individui che procede casualmente, di giorno in giorno, senza che nessuno si renda conto di essere parte di un movimento molto più antico e profondo. Queste sono le storie più piccole, che durano soltanto il tempo di una vita, la storia di quelli che le hanno vissute”.

“Sì, A Casa Nostra è un film politicamente impegnato – conclude Luca Belvaux -. Non è, ad ogni modo, un film militante, e non espone davvero nessuna teoria. Ho tentato di descrivere una situazione, un partito, una formazione sciolta, e decifrare il suo discorso, comprendere il suo impatto, la sua efficacia e potere di seduzione. Di mostrare la graduale rottura del superego che questo provoca, liberando un tipo di linguaggio fino a quel momento impronunciabile. Esponendo la confusione che mantiene, le paure che istiga e trasforma in strumento politico. Il film non è e non dovrebbe essere rivolto primariamente alle persone che sono già mobilitate, e che sanno che cosa vuole dire davvero l’estrema destra. Tutti potrebbero sapere cosa descrive, ma le persone oggigiorno ottengono le loro informazioni da media guidati più dallo spettacolare e dall’emozionante che dall’analisi e dalla riflessione. Ho cercato di evitare di riservarlo agli informati, ma di mettermi in contatto con tutti, “da persona a persona”, in un certo senso. Di mettere in scena, piuttosto che dimostrare. Di sorreggere uno specchio, senza distorsione, perché sebbene gli specchi riflettano, possono anche far riflettere quelli che li guardano. Gli specchi rivelano anche ciò che c’è dietro di noi, ci pongono in un ambiente, nel mondo, oggettivamente. Allo stesso tempo, ci mettono in prospettiva e di fronte a noi stessi. Questo film è prima di tutto rivolto a quelli che un giorno, forse domani, saranno tentati di rispondere a questi canti di sirena. Non so se sarà di qualche aiuto. Ma in ogni caso sono sicuro che valga la pena di fare un tentativo”.

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