Dreamings.

Sensibilizzare il pubblico europeo nei confronti dell’arte indigena australiana, una delle più brillanti espressioni dell’arte attuale, contrastando la tendenza a interpretarla in termini puramente etnografici; collegare la pittura aborigena australiana Western Desert all’arte contemporanea, in particolare al contenuto metafisico dell’arte di De Chirico ed alla sua concezione del mondo e della natura dell’essere: questi i messaggi più significativi e originali di “Dreamings. L’Arte Aborigena Australiana incontra de Chirico”.

23589-dreamings_l_arte_aborigena_australiana_incontra_de_chirico_largeLa mostra è ospitata al Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, uno degli spazi romani più idonei per l’accoglienza dell’arte contemporanea, la cui collezione permanente comprende 18 lavori di Giorgio De Chirico, sui quali in questa occasione ricade l’attenzione per un inedito accostamento.

La mostra, infatti, crea un ponte tra un concetto della tradizione indigena australiana – dreaming o dreamtime, il tempo del sogno – e la poetica dechirichiana, relazione particolarmente evidenziata nella sezione dedicata alle opere di Imants Tillers, uno degli artisti più rappresentativi dell’Arte Aborigena attuale, nella project room al primo piano. Dreaming per gli aborigeni è quel tempo spirituale precedente alla storia e alla creazione del mondo degli uomini.

L’iniziativa è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura.

La cura della mostra è di Ian Mc Lean e Erica Izett. Il primo è Research Professor in Contemporary Art, University of Wollongong, Australia ed autore di numerosi testi sull’arte Indigena Australiana. Fa parte del comitato scientifico delle riviste Third Text e World Art. Erica Izett da anni opera nello stesso settore di ricerca.

Dreamings. L’Arte Aborigena Australiana presenta più di 50 opere – tra le più interessanti dal punto di vista qualitativo – eseguite prevalentemente in acrilico a partire dagli anni ’90 dai più importanti artisti indigeni australiani contemporanei, esemplificative dei diversi stili e delle varie scuole artistiche delle regioni desertiche centrali e occidentali dell’Australia.
Le opere provengono in gran parte da una delle più rappresentative collezioni private del settore, quella dei francesi Marc Sordello e Francis Missana. Per il Museo Bilotti – nato in occasione di una donazione privata – è un’opportunità per riaprire il filone di ricerca sul collezionismo di arte contemporanea avviato da anni con diverse mostre già realizzate.

566d6-the-roses-of-heliogabalus-e1392394790591Le opere degli artisti in mostra possono ascriversi al movimento Western Desert, che raggruppa artisti indigeni provenienti da comunità di una vastissima zona d’Australia (600.000 Kmq) molto poco popolata. Inoltre, in esposizione, vi sono anche opere di due artisti indigeni di cultura urbana, Christian Thompson e Judy Watson, che, con stile contemporaneo, affrontano i temi del territorio e dell’identità.

Meno del tre per cento della popolazione australiana è indigena; un gran numero vive nelle zone urbane mentre solo una minoranza è rimasta nella propria terra nativa o nelle vicinanze, in zone scarsamente popolate e remote. La maggior parte dell’arte indigena proviene da questa Australia lontana dando vita ad una cultura ibrida che combina tradizioni indigene e occidentali.

Nata negli anni ‘70, solo a partire dai primi anni ’80, l’arte Western Desert ha smesso di essere relegata nei musei etnografici per collegarsi con l’arte contemporanea. Complice di questa evoluzione, il dibattito su post-colonialismo e globalizzazione e sul post-modernismo, condotto da giovani artisti e curatori di mostre, il cui esponente principale è stato Imants Tillers. Da allora, i dipinti in acrilico su tela della comunità Western Desert hanno attirato l’attenzione prima del mondo dell’arte e, subito dopo, del suo mercato.

Si possono individuare due filoni espressivi principali, quello degli artisti che ancora vivono nelle comunità remote – che dagli anni ’80 in poi sono entrati in contatto con la comunità artistica internazionale, attraverso i libri, le riviste, le visite ai musei e la frequentazione degli artisti occidentali – e quello degli artisti urbani di tradizione indigena, che, pur essendo educati nelle scuole e nelle università, mantengono contatti con la cultura dei nativi. Nell’insieme si tratta comunque di un’arte di affermazione di valori originari e antichi ma che assume anche un valore di barometro del cambiamento del mondo.

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