“Tu esisti ed io ti amo”.
“Vorrei essere io, quell’uccello che canta”
“Ogni volta mi sento come una mendicante, una ladra che viene a prendersi il loro denaro”.
In netto contrasto con un sole presumibilmente estivo, la protagonista, tra depressione e Xanax, tra corse forsennate ed istanti catatonici, senza trucco e con un pallore spettrale in volto (cosa siamo, in fondo, per la nostra capitalistica società contemporanea, quando perdiamo il lavoro, se non fantasmi?), si aggira per la città per due giorni e una notte (da cui il titolo), giocandosi quell’ultima carta che la separa dall’invisibilità.
Girato in Belgio e presentato in anteprima mondiale alla 67ª edizione del Festival di Cannes lo scorso 20 maggio, Due giorni, una notte segna l’undicesima regia per i pluripremiati veterani del cinema belga, i fratelli Jean-Pierre e LucDardenne. Dopo aver ricevuto la Palma d’oro per Rosetta nel 1999, per L’Enfant – Una storia d’amorenel 2005 ed essersi aggiudicati ben otto candidature ai Premi Magritte ed il premio per la migliore promessa maschile nel 2012 con Il ragazzo con la bicicletta, i due ci regalano l’ennesimo gioiello con una Marion Cotillard in stato di grazia che sfiora i limiti delle proprie capacità attoriali, calandosi nei panni di questa sua coetanea operaia con i nervi a pezzi e la vita in bilico.
Fa davvero male, infatti, vederla così scarnificata e scossa, tanto la sua interpretazione è verosimile. Contemplare per 56 minuti l’attrice francese più affascinante e talentosa della sua generazione sullo schermo senza un sorriso è dilaniante ma quando il volto di Sandra, finalmente, si può rilassare, fuggendo per un istante dalla circolarità in cui si sente imprigionata, la bellezza di Marion può riemergere prepotentemente ed è come se il cielo stesso gioisse con lei.
I Dardenne si sporcano a fondo le mani nella quotidianità, nella precarietà, nell’assoluta crudeltà dell’odierno mondo del lavoro, e, come gli è congeniale, ci restituiscono un’opera pulita, essenziale e di altissima qualità. Siamo sempre a Seraing, la città dove i due sono nati, nella regione francofona del Belgio, un luogo che probabilmente resterà famoso unicamente per loro. E’ proprio questa dimensione locale, alla Ken Loach, che rende questo dramma contemporaneo così intenso e doloroso.
Seraing è, infatti, metaforica di qualsiasi altra provincia del mondo in cui, come sottolineato dal raggelante comportamento del giovane, colui che sulla carta dovrebbe comprendere meglio la situazione e provare maggiore compassione, tutto ruota intorno ad un bonus di 150-1000 euro al massimo e si comprende inequivocabilmente come si stia delineando sempre più, intorno a noi, un’irreversibile e spietata guerra interraziale tra poveri, tutti contro tutti per le briciole mentre una sparuta manciata di individui possiede una ricchezza pari a quella del restante 90% dell’umanità.
Splendido anche il finale che ci insegna più di molti trattati internazionali quanto vi sia un’unica realistica via d’uscita da quest’empasse globale in cui siamo invischiati.
Sopravviveremo a questo soverchiante nemico senza volto? Il rock ci salverà.
Massimo Frezza