Foxcatcher, le due facce del sogno americano.

John Du Pont era un’atleta, un milionario, un filantropo. Ma John Du Pont era anche uno psicopatico.

Nel portare sul grande schermo la storia del ricchissimo proprietario del Team Foxcatcher, scuderia olimpionica americana di wrestling, il regista Bennett Miller decide di trasporre l’autobiografia di Mark Schultz Foxcatcher: The True Story of My Brother’s Murder, John du Pont’s Madness, and the Quest for Olympic Gold. Scelta molto interessante, perché Foxcatcher – Una storia americana non è un film sulla vita di Du Pont, che è deceduto in prigione cinque anni fa, ma la classica storia del “sogno americano” vissuto da un ragazzo che credeva fortemente nelle sue capacità e in quello che poteva rappresentare per il suo Paese. Ovviamente quel ragazzo è proprio Mark Schultz, ventottenne medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1984 che, malgrado le capacità, la foga e il titolo conseguito, è palesemente il pesce grande nel piccolo lago. foxcatcher-channing-tatum-steve-carellIl momento della svolta per Mark si presenta quando viene contattato da John Du Pont con l’intento di essere messo a capo del team di wrestling Foxcatcher per presentarsi al campionato mondiale del 1985. È questo il sogno americano per Mark! Le parole di John, il suo modo di motivare, il suo fare paterno, la ricchezza e l’agio che trapela da ogni metro quadro della sua tenuta, sono tutti segnali che la grande occasione per contribuire alla crescita della nazione è finalmente arrivata. Peccato che John sia completamente pazzo, egocentrico e megalomane, senza talento e succube della madre, chiaramente arrivato al punto in cui è grazie ai suoi averi e alla logica del denaro che può comprare qualsiasi cosa, perfino la Federazione e il Campionato, dunque la fama!

Quello che per Mark è il sogno americano, in realtà, è il più nero degli incubi, fatto di pressione psicologica, ricatti, competizione capace di mettere uno contro l’atro perfino i fratelli Schultz e l’immancabile dramma da cronaca nera che si tinge di sangue.
Il modo in cui Miller porta in scena la vicenda degli Schultz e di Du Pont rappresenta il perfetto connubio tra vicenda biografica ed esigenze drammaturgiche quasi shakespeariane, riuscendo a descrivere in maniera eccellente dei personaggi che rimangono anche oltre la visione. C’è da dire che Miller ha scelto un terzetto di attori capaci di bucare lo schermo e che contribuiscono moltissimo alla riuscita del film. Se Channing Tatum nel ruolo di Mark Schultz è un ulteriore passo nella crescita professionale di un attore che fino all’altroieri era semplicemente il belloccio inespressivo emerso da Step Up, Mark Ruffalo nel ruolo di Dave Schultz è semplicemente la conferma della bravura e la malleabilità di un grande interprete. Poi c’è Steve Carrell, candidato agli Oscar come attore non protagonista, che subisce una trasformazione fisica impressionante e offre un’interpretazione calibrata e lontanissima da ogni tipo di eccesso macchiettistico che il ruolo avrebbe anche potuto comportare.


Ma c’è anche da dire che Foxcatcher dura circa due ore e un quarto, parte in maniera fulminate e in altrettanto modo si conclude, con un blocco centrale che non offre troppe emozioni. Quel blocco centrale appesantisce l’intera visione e si può immaginare che se fosse durato una mezz’ora in meno, Foxcatcher non avrebbe potuto che guadagnarci.
Miller, che è un tipo da Academy e in passato aveva già raccontato Truman Capote con le sembianze di Philip Seymour Hoffman in A sangue freddo e L’arte di vincere con Brad Pitt, sa come raccontare una storia e soprattutto come gestire gli attori, al resto contribuisce la bella sceneggiatura di E. Max Frye e Dan Futterman, che è un ottimo esempio di caratterizzazione dei personaggi.

Foxcatcher è un ulteriore passo nel disfacimento del sogno americano nell’immaginario collettivo, messo alla berlina da chi quel sogno è cresciuto coltivandolo… e però ce l’ha fatta.

Roberto Giacomelli

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