A testa alta, dentro e fuori dal tribunale.

Dopo aver aperto la 68esima edizione del Festival di Cannes, “A testa alta”, film diretto da Emmanuelle Bercot con Catherine Deneuve, Rod Paradot, Benoît Magimel, Sara Forestier, uscirà in sala in Italia il prossimo 19 novembre distribuito da Officine UBU, in concomitanza con la Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che si terrà il 20 novembre.

a testa alta 1Abbandonato dalla madre quando aveva sei anni, Malony entra ed esce dal tribunale dei minori. Attorno a questo giovane allo sbando si forma una famiglia adottiva: Florence, un giudice minorile vicino alla pensione, e Yann, un assistente sociale a sua volta reduce da un’infanzia molto difficile.

Insieme seguono il percorso del ragazzo e tentano testardamente di salvarlo. Poi Malony viene mandato in una struttura correttiva più restrittiva, dove incontra Tess, una ragazza molto speciale che gli dimostrerà che ci sono motivi per continuare a sperare.

“Abbiamo impiegato molto per trovare il titolo – afferma la regista -. Il progetto è iniziato con il nome Doppio rischio ma era troppo ambiguo. Ha un significato molto specifico in ambito legale (il divieto di essere giudicati due volte per lo stesso reato, n.d.t.) e nel senso comune. Poi all’improvviso, François Kraus ha suggerito di usare le ultime parole della sceneggiatura: “Malony attraversa le stanze del tribunale, oltrepassa l’ingresso, e scende le scale. Si ferma, a testa alta, tenendo il suo bambino tra le braccia.” “A testa alta” è proprio quello di cui parla il film”.

a testa alta 3Dopo aver visto il film, il primo pensiero va agli assistenti sociali e ai giudici minorili il cui lavoro scrupoloso, la cui perseveranza, pazienza, devozione e abnegazione suscitano grande ammirazione. È molto diffuso oggi puntare il dito contro i fallimenti delle istituzioni e i difetti e limiti del sistema giudiziario, la regista, invece, fa esattamente il contrario. “Sì e… no! La mia idea iniziale – afferma Emmanuelle Bercot – era realizzare un film sul sistema di sostegno che ruota intorno ai bambini, ma quando ho avuto quest’ idea conoscevo molto poco quel mondo. Sono stati gli anni di ricerca che ho condotto prima di iniziare le riprese che mi hanno permesso di capire quanto questi operatori fossero motivati, di conoscere la loro abnegazione, pazienza e capacità di non mollare mai. In verità, il punto di partenza del film ha radici molto specifiche. Ho uno zio assistente sociale e da bambina ero andata a trovarlo in Bretagna dove era responsabile di un campo estivo per giovani delinquenti. Uno di loro era un bambino. Da ragazza di buona famiglia, sempre protetta e incoraggiata, ero affascinata dal comportamento di questi adolescenti che non avevano avuto la mia stessa fortuna, ero attratta dalla loro insolenza, dal loro atteggiamento ribelle nei confronti dell’autorità e delle convenzioni sociali. Allo stesso tempo ammiravo il lavoro di mio zio e degli altri assistenti sociali per rimetterli in carreggiata, educarli, insegnar loro ad amare se stessi e gli altri, portare rispettare ai propri simili, ma soprattutto a se stessi. Il ricordo è rimasto in me così presente che da adolescente volevo diventare un giudice minorile. Alla fine questo ricordo mi ha spinto a fare un film sull’argomento”.

“Per prima cosa – continua la regista – ho passato del tempo con mio zio. Gli ho chiesto di parlarmi della sua esperienza. Mi ha fatto conoscere altri assistenti sociali e un giudice minorile di Valence. Ho avuto l’opportunità di osservare le udienze, ho trascorso del tempo in un centro di detenzione minorile, e ho letto un’enorme quantità di libri e guardato ogni film o documentario trovassi sull’argomento, prendendo molti appunti. Questo approccio iniziale era molto sconvolgente e terrificante. Come si può non provare compassione e comprensione per questi bambini rovinati da terribili drammi famigliari, dalla povertà e spesso dalla mancanza di responsabilità dei genitori, cui fa seguito il fallimento del sistema scolastico, e una devastante mancanza di affetto che li ha lasciati in balia di se stessi, senza valori né prospettive per il futuro, alla deriva, presi in una spirale che solo gli assistenti sociali e i giudici possono tentare di arrestare? Come si può non ammirare l’energia, la devozione, la pazienza che questi giudici e assistenti sociali dispiegano per rimettere in carreggiata questi ragazzi, ad ogni costo, nonostante tutti gli ostacoli, l’ingratitudine, la crudeltà, i loro bassi salari, offrendo in pratica a questi ragazzi quell’attenzione di cui tanto acutamente soffrono la mancanza?”

La sceneggiatura inizia con questa epigrafe: “Tutti i bambini hanno diritto a un’educazione. Questa dovrebbe essere gestita dalla famiglia, e se la famiglia è carente, allora la società ha il dovere di intervenire”. “Ho letto quella frase in un libro scritto da un giudice – conclude Emmanuelle Bercot -. Evidenzia perfettamente l’argomento del film. La ritengo folgorante. Certe cose dovrebbero essere ovvie, ma, sfortunatamente, non sono sicura che sia una cosa scontata per tutti. Nonostante l’educazione sia un diritto fondamentale. Tornando alla frase, riassume il cuore del lavoro a favore di questi giovani. È un compito essenziale, vitale. Come si può salvare una società se non attraverso l’educazione, nella più ampia concezione del termine? La giustizia minorile poggia sull’idea che nulla sia del tutto scolpito nella pietra per un bambino e che attraverso i programmi educativi e di sostegno, la discesa senza fine possa essere fermata. Com’è possibile mettere in pratica tutto ciò, senza arrendersi – perché i risultati, se arrivano, ci mettono molto tempo ad essere raggiunti? Questo è il senso del film”.

a testa alta 2“Sia io che Emmanuelle – afferma Catherine Deneuve – abbiamo ritenuto sin dall’inizio che fosse utile vedere cosa succede veramente e come funzionano le cose. Non per fare ricerca, ma per captare il tono, il colore della voce, come si esprimono le persone, come parlano. Nell’interpretare un giudice, c’è il rischio di illustrare una funzione piuttosto che dare corpo a un individuo. Ho trovato la sceneggiatura molto buona, e mi piaceva quel ruolo, ma mentre ci ragionavo, mi sono resa conto che non sarebbe stato facile. È un po’ un continuo susseguirsi di domanda-risposta. Il dialogo si basa molto sui fatti, ed è anche molto specialistico. Avevo bisogno di vedere come andavano le cose nella vita reale, nel vero ambiente. Per molte settimane ho assistito a varie sessioni e udienze. Mi ricordo una sessione in cui c’erano due ragazzi e una ragazza che non volevano tornare con il padre. Anche la madre era presente, naturalmente. C’erano anche gli assistenti sociali dei ragazzi, quelli della famiglia, gli avvocati e il giudice. Posso assicurarvi che erano tutti ben consapevoli del momento, del dolore e degli eventi drammatici. La cosa che mi ha sorpreso di più è stata accorgermi dell’importanza che viene data a questi adolescenti, tutto il tempo che viene loro dedicato. Ti fa capire che viviamo in un paese molto civile! Uno dei punti di forza del film è richiamare l’attenzione sul lavoro instancabile di queste persone di cui non sappiamo molto, sulla loro perseveranza, la loro pazienza. Sono rimasta colpita dalle buone intenzioni che li muovono e dalla loro incredibile capacità di ascoltare”.

I commenti sono chiusi.