“Mar del Plata – gli angeli del rugby che sfidarono il regime argentino”, di Claudio Fava, in scena al teatro Piccolo Eliseo fino al 22 novembre.
“Chi ha paura della verità e della disobbedienza ricorre alla violenza e alla menzogna ovunque, i mafiosi in Sicilia oggi, i militari in Argentina 35 anni fa. Le violenze di mafiosi e golpisti si somigliano, come si somiglia la capacità di dire di no, di tenere appunto la schiena diritta, senza cercare la bella morte e senza voler essere eroi, come non lo sono questi ragazzi che giocavano a rugby e volevano soltanto continuare a farlo, nel loro Paese”.
Parole che pesano come montagne, che solo il figlio di chi è stato trucidato per davvero può scrivere: sono quelle di Claudio Fava, autore del libro ‘Mar Del Plata’ (Add editore, 2013), da cui è tratto lo spettacolo omonimo in scena al Piccolo Eliseo fino al 22 novembre con la regia di Giuseppe Marini.
“Angeli del Rugby’ che sfidarono il regime argentino”, Mar del Plata racconta la storia della squadra La Plata Rugby, che alla fine degli anni ‘70, nell’Argentina della dittatura dei colonnelli, venne decimata dai militari efferati del dittatore Videla. Una squadra che rimase in campo a giocare fino alla fine del campionato. «Tutti non ci potranno ammazzare» si ripetevano i giocatori della squadra di rugby. Diciassette rugbisti invece furono uccisi o svanirono nel nulla, uno dopo l’altro, durante il campionato del 1975.
Raul Barandiaran, è l’unico sopravvissuto a quella tragedia. L’unico testimone vivente della squadra che decise di correre contro la violenza e l’oppressione, tenendo stretta al petto la palla ovale, a perenne testimonianza di questo nobile sport nel quale “una volta sceso in campo non puoi fuggire o nasconderti, devi batterti con coraggio, lealtà e altruismo”.
“Non aveva mai raccontato la sua storia – rivela Fava – nemmeno quando il regime dei militari era crollato come un castello di carte. Essere rimasti vivi, sopravvissuti al male, è sempre un peso insopportabile”. Raul l’ha fatto anche con Claudio Fava, padre ucciso dalla mafia del 1984, qualche anno dopo la fine dei rugbisti. Forse questo passato atroce li ha aiutati a capirsi: l’incontro è stato l’inizio di un percorso che è diventato libro e dal 4 novembre sarà uno spettacolo teatrale. Mar del Plata: dove Raul e i suoi amici vinsero uno scudetto del Seven, l’ovale a 7, la disciplina che ora debutterà anche alle Olimpiadi, a Rio.
“Per molti anni non ha voluto raccontare quella drammatica vicenda perchè i sopravvissuti si portano sempre dentro un senso di colpa, è quasi un’ulcera questo privilegio di essere rimasti gli unici, ma alla fine questa storia è venuta fuori. Una storia di ragazzi che decidono di giocare fino all’ultima partita, di disobbedire all’ordine della tirannia che pretendeva si ritirassero dal campionato, e uno dopo l’atro vengono puniti con la morta per questa bestemmia, per la scelta di tenere la schiena diritta”.
“La prima volta che andai in Argentina la memoria di molte cose accadute era ancora intatta. Cose accadute laggiù, a Buenos Aires, dove la storia si era fermata su quell’elenco interminabile di nomi cancellati dalla vita e dal lutto, desaparecidos, ammazzati senza nemmeno il diritto a portarsi la propria morte addosso. Ma anche cose accadute quaggiù, in Italia, dove un’altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri s’erano portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre. Ho cercato di riannodare i fili invisibili che legano vite lontane tra loro: i giovani agenti di Paolo Borsellino che rinunciano alle ferie per far da scorta al loro giudice, i giovani rugbisti di Mar del Plata che rinunciano a trovare rifugio in Francia pur di giocarsi fino all’ultima partita il loro campionato. II nome di Raul, il sopravvissuto, l’ho conservato. Gli altri, carnefici e vittime, li ho ribattezzati: volevo che ciascuno di loro portasse in questo teatro qualcosa in più della propria storia, qualcosa in più della propria morte. Perché alla fine poco importa che quei ragazzi fossero argentini o siciliani. Importa come vissero. E come seppero dire di no”.
Importa che, seppur falcidiata, la squadra arrivò alla fine del campionato e giocò l’ultima partita in uno stadio gremito che gridava «viva la libertà» in faccia ai colonnelli.
Il rugby è un esercizio centenario dove hanno ancora un senso vocaboli caduti in disuso in altre discipline: educazione, sforzo, rispetto, silenzio, lavoro, altruismo e soprattutto molta umiltà. “Con la H maiuscola come i pali del nostro sport. La nostra squadra è stata sempre questo, però in qualcosa no: in alcuni momenti non abbiamo saputo stare zitti”.
Ogni cosa ebbe inizio con la morte di Hernan Roca, mediano di mischia. Non faceva politica, ma fu prelevato da casa scambiandolo per suo fratello Marcelo, militante nel gruppo radicale della sinistra peronista, e ucciso: rabbia, dolore, senso di impotenza arrivò come una bastonata sulla squadra che, la domenica dopo, giocò in campionato per ricordarlo. “Il minuto di raccoglimento ne durò 10”.
Per riportare a galla questa storia volle parecchio tempo. Dopo “la Corsa di Miguel”, dedicata alla memoria di un altro atleta desaparecido, il La Plata Rugby Club dedicò una commemorazione a quei suoi 17 giocatori, “per ricordare ciò che furono, grandi sportivi impegnati per un mondo migliore”, dice ancora Raul. Gustavo Veiga, giornalista di Pagina 12, il più grande studioso della storia degli atleti scomparsi con il suo “Deporte, desaparecidos y dicatadura”, diede per la prima volta la parola nel 2004 ai loro familiari.
E Raul, una sera d’inverno, di pioggia e di empanadas, trovò finalmente il modo di riunirli. Chi scrive ha vissuto l’emozione di assistere a quella combinazione di imbarazzi, abbracci e racconti unita da un fazzoletto bianco firmato da figli, fratelli e mogli, simbolo di una storia che almeno per qualche attimo si ricomponeva. “Molti si sono conosciuti in quella cena e oggi sono diventati amici. Il fatto è che la storia della squadra non era nota, vivevano la tragedia famiglia per famiglia. Per fortuna si sono potuti unire, il dolore si può condividere”.
Barandiaran è andato a votare domenica e lo farà anche il 22 novembre quando l’Argentina sceglierà il suo presidente della Repubblica fra l’ex campione di motonautica Daniel Scioli e l’ex presidente del Boca Juniors Mauricio Macri. “Da un lato c’è la continuità con una gestione del paese che ha risolto alcuni (solo alcuni) problemi sociali del Paese, dall’altra un candidato della destra più nefasta che vuole tornare al liberismo più sfrenato. Voterò per la continuità anche se ho molte critiche da fare all’attuale Governo”. Ma quante volte, nei suoi pensieri, tornano i compagni di squadra di una volta? “Raccontare mi pesa, pensarci no. Certo c’è sempre la tristezza: non riesco a ricordare le loro voci, e questo mi fa male. A volte quando voglio parlare con qualcuno di un tema personale, per un attimo li cerco immaginandomi le chiacchierate di una volta. E mi ricordo di quanto ho perduto”.
Le dichiarazioni dell’autore lasciano ben chiara allo spettatore la certezza che, a farci entrare nella sala del Piccolo Eliseo, non sarà tanto lo spettacolo ad attrarci, quanto un’esperienza che ci accrescerà, anche se forte come un pugno al fegato sotto una mischia. E, come in uno stadio, se apparisse su un megaschermo il risultato finale del paragone tra il libro e la l’opera teatrale da esso tratta, trionferebbe un bellissimo e gran pareggio, splendido risultato del lavoro reso dal regista e dai bravissimi attori, che ti inchiodano alla poltrona per un’ora e mezza.
Valori come lealtà e disciplina, passione e sprezzo del pericolo … chissà che qualcuno, riscoprendoli, sappia tirar fuori l’orgoglio di combattere quei grossi rami che ci cascano sulla testa, gettati da mani criminali e senza volto, che tante vittime lasciano sul selciato, suicidate nel nome dell’Usura di Stato, nel corpo come nell’animo. Chissà che quel qualcuno si rialzi in piedi, dando l’esempio a chi lo circonda, e inizi il cammino per una nuova e vera libertà.
Elia Cevoli