Race, anche le leggende sono vittime di razzismo

La vittoria non ha colore, ma per gli americani Jesse Owens non era uguale agli altri atleti suoi connazionali con la pelle bianca. Infatti, se Hitler non strinse la mano al corridore nero dopo le sue 4 medaglie olimpiche a Berlino nel 1936, non lo fece neanche il presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, che cancellò addirittura un appuntamento con il pluriolimpionico alla Casa Bianca.

RACE posterAnche dopo aver portato il proprio Paese sul podio dell’orgoglio olimpico, Owens infatti è stato vittima di razzismo nella vita quotidiana. La Casa Bianca non ha mai riconosciuto ufficialmente Owens fino al 1976, quando l’atleta è stato invitato alla Casa Bianca dal presidente Gerald Ford per ricevere il primo vero riconoscimento per i suoi successi sportivi, ovvero la Medaglia Presidenziale della Libertà – il massimo titolo per un civile americano. Nel 1984 una strada di Berlino venne ribattezzata in suo onore e il 28 marzo 1990 gli fu assegnata postuma la Medaglia d’oro del Congresso dal presidente statunitense George H. W. Bush.

L’incredibile storia di Jesse Owens arriva sul grande schermo con Eagle Pictures dal 31 marzo con “Race – il colore della vittoria”, il film biopic diretto da Stephen Hopkins con protagonista Stephan James (già tra gli interpreti di Selma – la strada per la libertà), insieme ai premi Oscar William Hurt e Jeremy Irons.

Stephan James è venuto in Italia, al comitato olimpico del Coni di Roma, per presentare il suo film insieme all’atleta Fiona May e alla voce italiana che ha doppiato il telecronista dell’epoca, Federico Buffa.

“Nel 1936 l’America – dice l’attore canadese Stephan James – era una società chiusa e permeata da razzismo come si vede nel film. Oggi non si può dire sia la stessa cosa, ma capitano ancora polemiche come è accaduto agli Oscar 2016 sulle mancate candidature di attori neri. La situazione insomma non è sparita, per questo è importante raccontare queste storie”.

“Owens è stato un’icona come Mandela, un atleta molto forte che non voleva rinunciare alla sua grande occasione: quella di dimostrare di essere l’uomo più veloce del mondo davanti ad Hitler”, dice Fiona May, due volte campionessa mondiale di salto in lungo.

Giocato sul doppio significato della parola inglese ‘race’ (‘razza’ e ‘corsa’) il film racconta come grazie al supporto del coach dell’Ohio University, Larry Snyder (interpretato da Jason Sudeikis), Jesse Owens potè partecipare alla Olimpiadi del 1936, nonostante il Comitato Olimpico Americano fosse intenzionato a boicottare i giochi in segno di protesta contro Hitler che non gradiva gli atleti di colore e quelli ebrei. Ma gli Stati Uniti, grazie alla mediazione di Avery Brundage (Jeremy Irons), alla fine parteciparono all’evento.

Ambientato tra Berlino e Montreal, “Race” rivela al mondo la versione del suo protagonista, non ascoltato in vita. Nato e cresciuto nell’America della grande depressione, permeata dal razzismo e dall’immobilismo sociale, Owens divenne leggenda con la conquista di quattro medaglie d’oro che sconvolsero l’opinione pubblica, annebbiata dal mito della supremazia della razza ariana.

Nel pomeriggio di quel 4 agosto, allo stadio olimpico era presente anche Adolf Hitler. Di fronte alla vittoria di Owens contro il tedesco Luz Long (il migliore atleta tedesco), nei libri di storia si legge che il Führer indispettito si sia alzato e uscito dallo stadio per non stringere la mano al nero americano. In realtà le cose andarono diversamente. Come scrisse nella sua autobiografia, “The Jesse Owens Story”, Owens stesso raccontò come Hitler si alzò in piedi e gli fece un cenno con la mano: “Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto”.

Per il regista Stephen Hopkins non sarà mai possibile rendere davvero giustizia alla vita di Jesse Owens in sole due ore di film: “descrivendo la sua parabola ascendente degli anni 1934-1936, lo vediamo trasformarsi da giovane e inesperto atleta in campione mondiale. Quest’arco di tempo è anche di grande interesse drammatico: non sarebbe potuto accadere né prima né dopo, in virtù di alcune innovazioni tecnologiche e, da un punto di vista prettamente storico, a causa dell’avanzata del nazismo in Europa”.

Quattro settimane di riprese nella capitale tedesca hanno portato al film “un’autenticità che non sarebbe stato possibile ottenere con la sola ricostruzione sul set”, commenta il regista Stephen Hopkins. Quando Stephan James esce dal tunnel sotto lo stadio Olimpico per raggiungere il tracciato, occupa esattamente “lo stesso punto in cui si trovava Jesse. Ho realizzato quanto fosse importante quel momento per lui, e mi è quasi mancato il fiato. Avevo i brividi. Pensare che ha corso mentre lo guardavano 100.000 persone… Ho provato l’emozione che forse deve aver provato anche lui nel 1936”.

“La storia di Jesse Owens è tanto ricca e incredibile – conclude il regista – che il lavoro è stato, piuttosto, riuscire a isolare e selezionare gli elementi, per arrivare al cuore della storia”.

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