The Post, Pentagon papers dalla A alla Z

Cosa sono i Pentagon Papers protagonisti del film The Post?

Una relazione top secret di 7.000 pagine, piena di scottanti segreti governativi. Il documento, che era stato stilato nel 1967 per l’allora Segretario alla Difesa Robert McNamara, aveva un titolo banale, “Storia delle decisioni U.S. in Vietnam, 1945-66”. Per quanto suonasse innocuo, il rapporto avrebbe scatenato un’onda d’urto i cui effetti si sentono ancora oggi. Il documento – che divenne famoso in tutto il mondo come Pentagon Papers – portava alla luce una verità a lungo nascosta: la vastità e la quantità di bugie raccontate sulla sanguinosa guerra in Vietnam aveva coinvolto quattro diverse amministrazioni, da Truman a Eisenhower, fino a Kennedy e Johnson. I Pentagon Papers rivelavano che ognuno di quei Presidenti aveva ingannato l’opinione pubblica sulle operazioni americane in Vietnam, e che mentre il governo sosteneva di volere raggiungere la pace, dietro le quinte i militari e la CIA incrementavano segretamente l’impegno dell’esercito nel conflitto. I Pentagon Papers raccontavano una storia oscura di assassini, violazioni della Convenzione di Ginevra, elezioni truccate e bugie raccontate al
Congresso. Queste rivelazioni erano particolarmente esplosive in un momento in cui i soldati americani, molti dei quali di leva, correvano rischi mortali in ogni istante. Alla fine, la guerra in Vietnam, terminata nel 1975, costò la vita a 58.220 soldati americani e causò la morte di oltre un milione di persone. I Pentagon Papers svelarono gli inganni che portarono a questo massacro.

NOR_D10_061217_0738.rafLa fonte che aveva rivelato l’esistenza dei Pentagon Papers al New York Times era il brillante analista militare della RAND Corporation, un think tank molto influente finanziato dal governo, Daniel Ellsberg, che aveva lavorato al rapporto fin dall’inizio. Ellsberg era stato nel corpo dei Marine ed era stato due anni in Vietnam con il Dipartimento di Stato americano. Nel tempo era rimasto sempre più deluso dall’evidente disparità tra quello che vedeva succedere sul campo, deciso a porte chiuse a Washington, e quello che gli americani non sapevano sulla strategia e il futuro della guerra. Nel 1969, spinto ad agire per il bene dei soldati, pur consapevole di rischiare personalmente, Ellsberg e il suo collega della RAND, Anthony Russo, iniziarono a fotocopiare di nascosto tutte le 7.000 pagine dei Pentagon Papers. Foglio dopo foglio, fecero uscire di notte i documenti che erano conservati in una camera di sicurezza alla RAND in una valigetta e li portarono nell’uffico in cui lavorava la fidanzata di Russo, Lynda Resnick– che aveva un’agenzia di pubblicità – per usare la sua Xerox. (Resnick era già impegnata nel movimento contro la guerra). Anche se Ellsberg considerava ciò che stava facendo un atto di patriottismo,
alcuni lo avrebbero presto indicato come “l’uomo più pericoloso d’America”.

Dopo aver fotocopiato integralmente il documento, Ellsberg pensò all’inizio di rivolgersi ai canali ufficiali e farlo conoscere all’opinione pubblica. Ma quando fallì ogni suo tentativo di ottenere l’appoggio di numerosi membri del Congresso decise di sottoporlo al New York Times. Nel marzo del 1971, Ellsberg contattò con mille precauzioni il giornalista Neil Sheehan – che aveva iniziato a inviare articoli da Saigon a 26 anni e che era conosciuto per la determinazione con cui affrontava questioni militari o politiche – perché desse un’occhiata al materiale. Anche se Sheehan non potè promettere nulla a Ellsberg, disse che avrebbe fatto vedere i Pentagon Papers ai suoi capi del Times.

The Times colse subito la forza dirompente e le conseguenze che avrebbe avuto la pubblicazione del documento e, sfidando il parere dei legali, l’editore Arthur “Punch” Sulzberger e l’amministratore delegato Abe Rosenthal decisero di andare avanti, considerando attentamente le responsabilità che avevano sia nei confronti del pubblico che dell’interesse nazionale. Un team di giornalisti passò quindi clandestinamente tre mesi in un albergo per analizzare a fondo la documentazione e prepararsi a raccontare una storia molto complessa – preoccupati anche dal fatto che l’F.B.I. potesse essere sulle loro tracce. Venne quindi presa la decisione di pubblicarla nel modo meno sensazionalistico possibile. Comunque fin dal primo momento in cui The New York Times raggiunse le edicole la domenica del 13 giugno 1971 con in prima pagina il titolo “Archivio Vietnam: gli studi del Pentagono rivelano 3 decenni di crescente coinvolgimento americano”, scoppiò l’inferno. Gli editori degli altri quotidiani della città, consapevoli dello scoop, iniziarono a indagare anche loro. Nel frattempo a Washington, si mise in moto l’azione per incriminare non solo Ellsberg, ma anche il New York Times e chiunque altro avesse tentato di rivelare i segreti dei Pentagon Papers. Il 15 giugno l’amministrazione Nixon chiese alla Corte Federale di bloccare la pubblicazione dei documenti da parte del Times, sostenendo che avrebbe messo in pericolo la sicurezza nazionale. La corte le diede ragione.

Mentre il New York Times non poteva più pubblicare nulla, gli altri quotidiani iniziarono a darsi da fare per avere accesso ai documenti e scrivere i loro articoli e le loro analisi. Il Washington Post, considerato più un giornale locale rispetto al più blasonato New York Times, letto in tutto il paese, raccolse immediatamente il testimone quando l’assistente del capo redattore Ben Bagdikian, ex collega di Ellsberg alla RAND, ottenne un’altra copia completa del documento. A quel punto stava all’editrice Katharine Graham – l’unica donna ad avere una posizione di potere in un grande giornale nazionale – decidere se andare avanti o mettere un freno. Sotto pressione e malgrado le ricordassero che avrebbe potuto compromettere il futuro del giornale, che in quel momento stava per quotarsi in borsa, lei disse al direttore Ben Bradlee di iniziare a pubblicare tutto.

Il 18 giugno, il Washington Post fu il primo quotidiano a pubblicare il materiale dei Pentagon Papers dopo l’ingiunzione contro il Times – a costo di dover affrontare un’azione legale. Quel giorno stesso il Dipartimento di Giustizia emanò un ordine restrittivo e un’ordinanza permanente contro il Washington Post, ma questa volta l’ordine venne annullato dal giudice federale. Nel frattempo il coraggio del Times e del Post spinsero il Boston Globe, il Chicago Sun-Times e altri giornali a scrivere sull’argomento data l’importanza enorme del momento. Il 30 giugno la Corte Suprema rigettò l’ingiunzione contro la pubblicazione, l’opinione della maggioranza era che la pubblicazione dei Pentagon Papers era di interesse pubblico e che era dovere della stampa libera controllare l’operato del governo. Ellsberg e Russo vennero accusati di spionaggio e Ellsberg rischiò 115 anni di prigione. Il processo iniziò nel gennaio del 1973, proprio mentre scoppiava lo scandalo Watergate. E i due sarebbero sempre stati collegati quando venne fuori che la Casa Bianca di Nixon aveva illegalmente autorizzato lo spionaggio dello psichiatra di Ellsberg per screditare quest’ultimo. Alla fine, l’11 maggio del 1973, il giudice incaricato del processo ne dichiarò l’annullamento perché l’imputato aveva considerato il comportamento scorretto del governo. Tutte le accuse contro Ellsberg e Russo caddero. Da quel momento la storia dei Pentagon Papers è diventata molto di più di un singolo e controverso atto di coscienza, è diventata la storia del potere che viene dal lavorare insieme e del potere del raccontare la verità, per quanto sia scomodo e pericoloso farlo.

NOR_D00_052317_8053.cr2La storia dei Pentagon Papers racchiude in sé tante storie – quella di quattro amministrazioni presidenziali che mentirono alla nazione sulle circostanze della guerra per oltre 20 anni, quella del perché l’ex marine e consulente militare Daniel Ellsberg decise di far arrivare i documenti alla stampa, quella di come il New York Times gestì uno scoop spettacolare e incendiario, quella del processo, per non parlare delle implicazioni per i media, il Primo Emendamento e la democrazia stessa.

The Post non racconta solo la tensione che permea la battaglia per pubblicare i Pentagon Papers, è anche il ritratto di una collaborazione vincente, di come la forza espressa da una squadra di persone che lavorano insieme sia di gran lunga superiore a quella di talenti individuali. Al centro della storia ci sono due persone profondamente diverse, ma che si sono sempre rispettate, Katharine Graham e Ben Bradlee. Graham sarebbe diventata una delle donne più influenti d’America, una pioniera che avrebbe infranto il soffitto di cristallo per diventare capo dell’impero mediatico della Washington Post Company e la gran dama del giornalismo che non aveva paura del potere. Ma al tempo dei Pentagon Papers, stava ancora cercando di ambientarsi e di imparare, era l’unica donna a occupare un posto di quel livello. Il Washington Post apparteneva alla famiglia Graham dal 1933, quando il padre, il finanziere Eugene Meyer lo acquisì. Nel 1946 ne divenne editore il marito di Kay, Phil, che avrebbe posto l’accento sul giornalismo investigativo, trasformando un giornale locale in un quotidiano a tiratura nazionale. Nel 1963, Phil Graham, in preda a una profonda depressione, si suicidò, lasciando il giornale a Kay, che allora aveva 46 anni ed era madre di quattro figli. Anche se gli amici e gli esperti le consigliarono di affidarlo a qualcuno con maggiore esperienza e competenza, Graham volle restare al timone, dicendo che lo faceva per i suoi figli, era l’eredità della famiglia.

Il figlio di Graham, Don Graham – che ha servito il suo paese in Vietnam e ora è Presidente della Graham Holdings Company – dice: “Mia madre pensava al padre, pensava al marito e così decise di continuare a editare il giornale per il quale loro
avevano fatto tanto”. Graham stessa più tardi avrebbe scritto: “Talvolta non decidi veramente, vai solo avanti, ed è ciò che ho fatto – iniziando alla cieca e senza pensare una vita nuova e sconosciuta”. Questa ‘vita nuova e sconosciuta’ avrebbe infranto tutta una serie di barriere. Era ancora l’epoca in cui le giornaliste donne non potevano entrare negli esclusivi club di Washington, ma nessuno potè negare a Graham l’accesso come editrice del Post. E comunque dovette lavorare molto su se stessa, era cresciuta in un ambiente in cui era tradizione che le donne fossero condiscendenti e in seguito confessò di aver avuto difficoltà a sentirsi sicura e ad aver fiducia in sé. Scrisse di aver sofferto di “un eccessivo desiderio di compiacere, una sindrome così radicata nelle donne della mia generazione che ha condizionato il mio modo di comportarmi per parecchi anni”.

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