Chen Zhen, un giovane studente di Pechino, viene inviato nelle zone interne della Mongolia per insegnare a una tribù nomade di pastori. A contatto con una realtà diversa dalla sua, Chen scopre di esser lui quello che ha molto da imparare sulla comunità, sulla libertà ma specialmente sul lupo, la creatura più riverita della steppa. Sedotto dal legame che i pastori hanno con il lupo e affascinato dall’astuzia e dalla forza dell’animale, Chen un giorno trova un cucciolo e decide di addomesticarlo. Il forte rapporto che si crea tra i due sarà minacciato dalla decisione di un ufficiale del governo di eliminare, a qualunque costo, tutti i lupi della regione.
Dal regista de “Il nome della rosa” e “Sette anni in Tibet” Jean-Jacques Annaud un altro grande capolavoro destinato a diventare un classico, dal 26 marzo al cinema con Notorious pictures.
Sul pressbook del film una lunga intervista al regista. Eccola:
Com’è cominciata quest’avventura che risale a circa 7 anni fa?
Tutto è cominciato quando una delegazione di cinesi è venuta a incontrarmi a Parigi. Prima di tutto bisogna sottolineare che Il totem del lupo (edito da Mondadori) è stato un fenomeno letterario sconvolgente in Cina. Uscito nel 2004, il romanzo è scampato alla censura. Mascherato sotto uno pseudonimo, l’autore, era di fatto sconosciuto. Il suo libro autobiografico si svolgeva nella lontanissima Mongolia Interna, nel 1967, all’inizio della rivoluzione culturale. Le autorità non ci hanno fatto praticamente caso, se non fosse che la storia ha riportato alla luce molte cose. Il percorso d’iniziazione di un giovane alla scoperta della campagna remota e la sua conversione alla vita da nomade in un luogo così selvaggio, avevano, decenni dopo, una risonanza particolare in un paese, come la Cina, alle prese con dei terribili problemi ambientali e con l’inquinamento.
L’uscita del romanzo è stata come una presa di coscienza del pericolo ambientale…
L’impatto sulla società è stato colossale. Il totem del lupo è diventato il successo letterario più importate dopo il Libretto rosso di Mao. I lettori hanno scoperto l’esistenza dei questi luoghi magnifici e puri della Mongolia Interna, che oggi è fortemente minacciata.
Ma torniamo alla domanda iniziale: com’è arrivato questo progetto nelle sue mani?
Avevo sentito parlare del libro quando uscì tradotto in francese e ne avevo letto qualche pagina, è stato lo stesso modo in cui mi ero avvicinato a Il nome della Rosa quando, anni prima, lessi degli estratti del romanzo. Mi resi conto, allora, che i temi sviluppati ne Il totem del lupo mi erano familiari. Il giovane studente Chen Zhen catapultato in piena campagna nel 1967 mi ha ricordato il giovane uomo che ero stato io in quello stesso anno, quando partii alla scoperta del Camerun e mi approcciavo a girare il mio primo film, Bianco e nero a colori. L’idea di questo “giovane istruito” che s’innamorava di un luogo così improbabile, allevando un cucciolo di lupo in mezzo a un branco di pecore, non era altro che il ricordo di alcune tematiche ben radicate nella mia vita e nel mio lavoro. È stato allora che, le persone che poi sono diventate i miei produttori e i miei collaboratori, arrivarono nel mio ufficio, a Rue Lincoln a Parigi. Mi proposero di adattare il romanzo per il grande schermo. Gli ricordai che io non ero proprio ‘benvoluto’ dalle autorità cinesi, ma loro dissero “La Cina è cambiata. E poi siamo persone pragmatiche: abbiamo bisogno di lei”. Accettai la loro offerta di andare a Pechino. Arrivato in Cina mi resi conto che i miei film erano molto diffusi in tutto il paese, che avevano trovato posto tra le poche produzioni straniere che non erano censurate. Per assurdo, però, il mio film più visto in assoluto L’amante è, ad oggi, ancora vietato.
Il viaggio in Cina è stato fatto di nascosto oppure alla luce del sole?
Quando sono atterrato a Pechino sono stato subito accompagnato al comune per incontrare il sindaco, un “fan” del libro molto preoccupato per la scarsa affluenza di turisti in città a causa dello smog. Sono partito la sera stessa per la Mongolia Interna, accompagnato da Jiang Rong, l’autore del romanzo e grande estimatore di Stendhal, da sua sorella, che lavora per una grande società americana, dal marito della donna, economista molto famoso per le sue idee “rivoluzionarie”, e dal compagno di avventure di Jiang Rong, che aveva condiviso con lui il primo viaggio in Mongolia ed è diventato “il” pittore della Mongolia, anche lui grande ammiratore di Meillet, Corot e dei pre -impressionisti della Scuola di Barbizon. Con noi venne anche il presidente dell’emittente tv di Pechino, un funzionario pubblico dinamico e affabile accompagnato da sua moglie, un’ex ballerina.
Fu un soggiorno di 3 settimane nei luoghi della storia, ai piedi delle montagne dove era stato trovato il cucciolo di lupo, sulle rive del lago gelato dove si immersero i loro cavalli, vicino agli allevatori che non hanno dimenticato nulla di quella storia. In seguito ci ha raggiunto un direttore della fotografia originario della steppa più profonda, insieme con la sua compagna, una star della musica pop mongola. Ci siamo divertiti e abbiamo scherzato tra di noi. L’alcool di latte di giumenta fermentato crea quel giusto mix che fa nascere grandi amicizie! Alla fine di ogni pasto i commensali si lanciavano in arringhe appassionate, sull’indispensabilità che la Cina dia una svolta per preservare i suoi paesaggi naturalistici e le sue specie animali.
Converrà con me che questo discorso sembra assurdo agli occhi di un occidentale…
Certamente mi sono imbattuto in un gruppo un po’ particolare, che aveva però lo scopo finale di ribaltare l’opinione pubblica che in quegli anni stava cambiando. Gli abitanti delle città stavano soffocando, non potevano uscire senza mascherina. Dovevano utilizzare i loro cellulari per localizzare la via di casa. Ai bambini erano vietate le attività all’aria aperta per il pericolo estremo di contrarre malattie polmonari. La gente che vive in campagna s’intossicava a causa delle acque inquinate o, peggio ancora, veniva cacciata per fare spazio alla cementificazione. Tutto ciò viene riportato quotidianamente dalle tv e dalle radio di tutto il paese. Non si tratta di fare bella figura, si tratta di una questione di sopravvivenza. In questo senso sì, la Cina si sente in dovere di fare dei cambiamenti. Anche se nuove direttive tentano di bloccare l’accesso a informazioni considerate negative e antipatriottiche. Da lontano non abbiamo mai la stessa percezione di quando si sta sul posto e si condivide la vita quotidiana con la gente. Lì ho scoperto un paese e un popolo che non immaginavo. Sono stato accolto a braccia aperte. Con i miei attori e la troupe si è creato un bellissimo rapporto. Ho lavorato con grande libertà. Naturalmente ero in una posizione privilegiata ma quello che mi è piaciuto più di tutto è stata la loro franchezza disarmante. Per esempio la prima sera a cena mi hanno detto queste parole: “Quello che lei sa fare noi non lo sappiamo fare. Almeno per ora. La guarderemo attentamente per apprendere il più possibile così che poi impareremo e non avremo più bisogno di lei!”. Tutti si sono messi a ridere alzando in alto i bicchieri!
Questa libertà di cui parla è probabilmente dovuta al fatto che molti dei suoi film sono stati visti in Cina. In che modo questa libertà ha aiutato nella realizzazione de L’Ultimo lupo?
Solitamente bisogna aspettare mesi prima che l’ufficio del cinema dia il proprio consenso alla sceneggiatura di un film. La nostra è stata scritta in Francia insieme con Alain Godard e poi conclusa a Pechino da me dopo la scomparsa di Alain. Il giorno che ho consegnato la sceneggiatura alla China Film Group, ho ricevuto le note di lettura come accade negli Stati Uniti, ma con un’amabilità tutta orientale. Tre scene del film sembravano essere problematiche. Inviai una lettera chiedendo la possibilità di girarle comunque e di giudicarle una volta realizzate. La proposta fu accettata così. Queste scene sono rimaste nel film e sono esattamente come le avevo scritte. Tuttavia, la scena in cui si intravede il seno di una delle pastorelle è stata segnalata come “a rischio” perché potrebbe turbare il pudore cinese. Ho rimpiazzato quei due secondi con le immagini, più rispettose, del corpo visto da lontano, di alcune giovani donne mongole. Ho anche corretto due parole nei dialoghi. Credo di essere un miracolato della censura!
Lei era in Cina al momento della visione del film?
No, ero tornato a Parigi convinto del fatto che i miei collaboratori potessero gestire la situazione. Dopo tre settimane ero molto preoccupato che alla versione cinese avrebbero tagliato scene intere! Preoccupazione aggiuntiva: esiste in Cina una commissione che vigila sul rispetto delle specificità regionali. Sono 56 le minoranze etniche che vivono in Cina, per un totale di circa 200 milioni di persone. Io sono il primo a pensare che bisogna rispettare le minoranze ma, a parte 4 consiglieri assunti per aiutarmi a non fare errori, ero angosciato di non aver fatto abbastanza per mostrare la cultura e le abitudini mongole! Bè, prima di ricevere il via libera finale, devo dire che il mese di luglio del 2014 è stato piuttosto adrenalinico!
Che cosa pensa della concorrenza con i film cinesi?
Nel mondo cinematografico odierno credo che la Cina sia per la Francia più un possibile alleato che un concorrente. La concorrenza, in Cina, è americana e non è neanche di buona qualità. I film hollywoodiani che hanno accesso a quello che diventerà a breve il più grande mercato cinematografico del mondo, sono i classici blockbuster, i più prevedibili e i più spettacolari. I professionisti cinesi sono alla continua ricerca di scambio, sono sempre di più gli incontri con i produttori degli altri paesi.
Com’è visto in Cina L’Ultimo Lupo? Come un film cinese fatto da un francese o come un film francese realizzato anche con soldi cinesi?
In Canada La guerra del fuoco è un film canadese, in Germania Il nome della Rosa è un film tedesco. Visto dall’Africa Bianco e nero a colori, che ha vinto l’Oscar per la Costa d’Avorio, è un film africano. L’ultimo lupo è un film cinese, ma è anche il mio film.
L’ostacolo della lingua, o meglio, delle lingue è stato difficile da affrontare con gli attori?
Su un set tutti parliamo la stessa lingua: la lingua del cinema. Dai tecnici agli attori ognuno sa quello che deve fare e quando deve farlo. L’unico problema quando non si parla la lingua nella quale stai girando, in questo caso il mongolo e il mandarino, è di giudicare la corretta pronuncia delle parole e dei diversi accenti. Mi sono circondato di specialisti delle due diverse lingue per evitare gli errori del testo e della pronuncia.
Visto che ha parlato dei suoi attori, sono tutti professionisti?
Per le comparse abbiamo ingaggiato allevatori e dei cavallerizzi del posto. Ma tutti quelli che hanno un ruolo con delle battute, anche poche parole, sono professionisti. Solo i tre protagonisti sono però delle vere star Han, l’etnia dominante in Cina. Gli altri provengono dai quattro angoli più nascosti della Mongolia Interna, selezionati attraverso un casting che mi ha fatto percorrere decine di migliaia di chilometri per incontrarli.
Parliamo degli aspetti tecnici del film. Alcune sequenze hanno una grandezza dantesca in termini di comparse, animali, azioni e scenografia. Il budget si aggira intorno ai 40 milioni di dollari, una grossa somma tradotta in moneta cinese. Non le è stato negato niente?
Ho avuto la fortuna di beneficiare della volontà dell’industria cinematografica cinese di migliorarsi e di elevarsi di livello. Produttori, registi, attori, tecnici tutti hanno uno sguardo molto critico nei confronti del loro lavoro. Su 400 film prodotti all’anno, tra questi ci sono dei veri gioielli. L’industria cinematografica cinese di oggi mi fa pensare all’Italia degli anni ’60, la grande epoca del Peplum all’italiana e degli spaghetti western, dove il sistema cinematografico doveva fare i conti con le produzioni di scarsa qualità, circondati da cinema alto diretto da grandi registi.
Per quanto riguarda le macchine con cui ha girato, le è stato dato tutto quello di cui aveva bisogno?
Il primo giorno di riprese ho fatto preparare le telecamere 3D e mi sono reso conto che non solo erano mal messe, ma che nessuno sapeva come utilizzarle. Ho provato a stento a trattenere la rabbia. Spiegai che non potevamo girare il film in quelle condizioni… tentai di girare la scena con quelle macchine in stato precario. Dopo la pausa pranzo però mi dissero che in realtà gli assistenti avevano fatto una finta manovra e che niente era stato registrato. La metà dei miei amici francesi voleva tornarsene a casa. Il capo operatore di macchina si è chiuso nella sua roulotte a piangere. Ci siamo incaponiti e siamo riusciti a portare a casa la scena complicatissima dell’attacco a cavallo. A quel punto eravamo a Novembre. Quando tornai a gennaio, trovai una sorpresa: due telecamere nuove di zecca provenienti da Monaco, allineate dietro di loro c’erano una quindicina di persone, componenti della squadra di regia, appena tornati dalla Germania dove avevano seguito un corso per l’utilizzo delle telecamere. Un anno dopo la squadra regia è diventata la più preparata con la quale io abbia mai lavorato. Per il resto, alle volte abbiamo dovuto fare i conti con la realtà locale. I ventilatori ad esempio… erano indispensabili per le scena in cui c’era la bufera di neve. In Cina è vietato l’utilizzo del carburante per aerei ed era impossibile pensare di utilizzare il motore di un aereo per creare quell’effetto. Abbiamo dovuto utilizzare dei vecchi ventilatori elettrici da studio, degli aggeggi da 400 chili ciascuno montati su delle piccole rotelle che avevo visto negli anni ‘60, quando visitai gli studi cinematografici dell’Unione Sovietica. Una cinquantina di Marcantoni con mantello verde e cappello di pelliccia, si sono impegnati per rimorchiare, spingere e trasportare queste macchine del vento in cima alla collina, tirando i cavi su per chilometri di pendii ghiacciati. Il tutto cantando, scherzando e ridendo… Al tempo stesso, però, avevo a disposizione dei materiali di lusso ultra moderni, come ad esempio dei proiettori ultrapotenti da 1000KW appesi in cima a delle gru telescopiche, in grado di schiarire la luce notturna in piena tempesta su delle superfici grandi come campi da calcio.
Qual è lo status sociale delle persone di cui parla?
Sono assunti e pagati annualmente, come erano i tecnici della SFP in Francia un tempo… Hanno la garanzia di un impiego, la garanzia di mangiare lo stufato disgustoso e la zuppa fredda della cucina, lavorano 7 giorni su 7. Hanno anche la possibilità di vivere l’emozione di lavorare nello spettacolo e la certezza di vedere il loro salario aumentato del 20% ogni anno. (Sul foglio di impiego c’è scritto l’orario di inizio riprese ma non quello di fine riprese, che è a discrezione del regista. Registi, attori e tecnici sono abituati a questi ritmi e, quasi sempre, dormono nei camion in mezzo ai cavi delle prese elettriche…)
Quanti eravate sul set?
480 tecnici, 200 cavalli, circa un migliaio di pecore, 25 lupi e una cinquantina di addestratori e massaggiatori che si occupavano di loro. C’erano anche delle guardie armate e alcuni fattori del luogo con l’idea che avrebbero potuto prendere in prestito qualche nostro lupo per farlo accoppiare con i loro cani.
Immagino che la struttura costruita per questi animali sia stata mastodontica…
Per ospitare i lupi abbiamo costruito 5 basi lungo il percorso, oltre che camion speciali adibiti al trasporto degli animali nelle varie location del film. Come tutti gli animali selvatici, i lupi soffrono molto lo stress dopo 20 chilometri di trasporto. In prossimità di ogni zona di riprese, c’era una di queste basi che occupava poco più di un ettaro, circondata da una palizzata di 4 metri di altezza per un metro e 50 di profondità. I lupi scavano molto in profondità. Queste strutture avevano bisogno di guardiani, acqua, elettricità, di calore e di cibo. Per tutti questi aspetti è stata utilizzata una buona parte di budget.
Domanda necessaria: come si fa a far correre in parallelo lupi e cavalli, senza che ai primi venga voglia di azzannare i secondi?
I lupi adorano la carne di cavallo e i cavalli non hanno alcuna voglia di fargli da spuntino. Queste scene sono state davvero complicate da girare e molto pericolose perché giravamo in movimento, di notte, su dei quod instabili e in piena tempesta di neve… Andrew Simpson, l’addestratore capo, non avrebbe mai lasciato che i suoi animali corressero i rischi che abbiamo corso noi!
Prima di tornare a parlare dei lupi, vorrei parlare del 3D visto che ne L’Ultimo Lupo l’ha utilizzato. La credevo piuttosto restìo all’utilizzo del 3D…
Il costo per girare in 3D è enorme, si spende circa 1/3 del budget in più. Ho esitato a lungo. Quello che mi ha convinto a utilizzarlo la sorprenderà: mi sono reso conto che erano le scene riprese da vicino del cucciolo di lupo che ne avrebbero giovato veramente.
Credevo che fossero le scene più spettacolari che avevano beneficiato di più dell’utilizzo del 3D…
Tutti fanno lo stesso errore! Il 3D non serve a molto nei grandi spazi. Oltre i 15 metri non vediamo più niente in rilievo. Al contrario quando si gira in uno spazio piccolo, si ha un’altra percezione se fatto con il 3D. È quando la telecamera si avvicina al viso, quando cattura l’emozione degli attori che la stereoscopia dà qualcosa in più. Ho abolito le immagini più ostentate e in cui sembra che un oggetto esca fuori dallo schermo per arrivare al viso dello spettatore.
Aveva già sperimentato in un certo senso, il 3D per le riprese di Guillaumet – Les ailes du courage. La tecnologia si è molto evoluta da allora?
Sì, in generale le telecamere sono 20 volte meno pesanti e decisamente meno complicate da utilizzare. Oggi per vedere il risultato è sufficiente che il regista indossi gli occhiali 3D e guardi la scena sul monitor. All’epoca di Guillaument – Les ailes du courage, per vedere come erano venute le riprese dovevo prendere un aereo e arrivare dall’altra parte del Canada. Dal punto di vista della pesantezza delle macchine, le telecamere 3D rallentavano le riprese, ma non era un problema insormontabile. La difficoltà è un’altra: il regista deve essere in grado di cambiare la logica del suo cervello. Non deve più realizzare un’immagine piatta all’interno di un quadro, ma deve pensare ai volumi inseriti nello spazio. Da pittore diventa scultore. Bisogna raddoppiare l’attenzione al momento del montaggio, considerare lo sforzo visivo che dovrà fare lo spettatore.
Con il 2d ci si sistema e si mette a fuoco lo schermo una volta per tutte. Con il 3D la messa a fuoco cambia a ogni inquadratura. Se il montaggio è caotico, il mal di testa è assicurato. Il tutto a discapito della storia!
Utilizzando questi mezzi, secondo lei, girare in 3D non incide sulle riprese?
Ci vuole più tempo per installare tutto, bisogna fare molta attenzione al posizionamento delle luci: il minimo riflesso è una catastrofe, se non c’è lo stesso riflesso sull’oggetto alla tua destra e alla tua sinistra è impossibile poi fondere l’immagine. Bisogna diffidare delle cose in primo piano che prendono sullo schermo un’importanza diabolica. Inoltre un fiocco di neve, una goccia di pioggia o un passerotto che passa davanti all’obiettivo diventano problemi insormontabili: l’elemento disturbante è visibile da un solo occhio. Sul set avevamo sempre 4 “assistenti- soffiatori”, due per lato, che soffiavano via i fiocchi di neve muniti di phon per capelli o di tubi attaccati a dei compressori. Questo per altro era l’unica cosa che terrorizzava i lupi!
Veniamo ai veri protagonisti del film e cominciamo dall’inizio: la nascita e l’addestramento dei cuccioli.
Abbiamo utilizzato lo stesso processo fatto per L’Orso. Durante l’addestramento dei cuccioli di orso, avevo avuto il tempo di girare Il nome della rosa. Aspettando che i nostri lupi crescessero ho girato invece Il principe del deserto. La produzione cinese ha accettato di finanziare la preparazione, accettando il fatto che ci sarebbero voluti tre anni affinché girassimo la prima scena. Bisognava prendere dei cuccioli di lupo, farli crescere all’interno di parchi costruiti appositamente per il loro sviluppo, sotto una sorveglianza costante. Conosco pochi produttori che sarebbero stati disposti a fare questo salto nel buio. Abbiamo coinvolto il più famoso addestratore di lupi al mondo, il canadese Andrew Simpson, che si è trasferito in Cina per 3 anni! A fine riprese Andrew ha ottenuto il permesso di portare con sé gli animali che aveva tirato su e visto crescere, che aveva addestrato quotidianamente e che erano diventati i suoi bambini. Il branco oggi vive in montagna, a Calgary e Andrew mi racconta che ogni giorno i lupi aspettano di veder arrivare i camion regia..!
Concretamente come funziona la giornata?
È un discreto incubo! Il lupo è un animale molto selvaggio, sempre sul chi va là. Obbedisce solo al suo capo branco, che a sua volta obbedisce all’addestratore solo quando vuole. Non si lascia avvicinare. Non si lascia lavare quando si è rotolato nel fango. Bisogna aspettare ore, a volte giorni, perché il lupo senta la scena, bisogna essere pronti a scattare nel momento in cui il re decide che è il momento di girare! Avevamo due gruppi, uno dei quali particolarmente difficile. I cuccioli del primo gruppo erano stati presi una settimana dopo la loro nascita e quindi non riconoscevano negli addestratori i loro genitori. Non sono mai riusciti ad addomesticarli. Una vera fortuna per il film…
Altro problema: tutti i lupi del mondo nascono tra metà marzo e l’inizio di Aprile. Noi abbiamo dovuto costruire il nostro piano lavoro tenendo conto di questa cosa. Abbiamo interrotto le riprese molte volte per lasciare che il nostro giovane protagonista crescesse. In realtà è stato un beneficio per il film: il colore della steppa tipico nel cambio di stagione è perfetto se paragonato al processo di crescita del lupo.
Qual è stato il suo sguardo su questi “attori” così particolari?
I grandi attori spesso sono incontrollabili, deconcentrati, affascinanti ed emotivi. A volte invece sono adorabili, come il nostro capo branco, il re Cloudy, a cui ho affidato il ruolo principale.
Aveva deciso che ero suo amico, potevo accarezzarlo e ogni mattina mi saltava addosso leccandomi il viso. Un privilegio raro, che mi ha fatto buttare numerose giacche a vento e procurato non pochi graffi. La regina Silver, la sua compagna, metteva fine alle nostre effusioni tirandomi i pantaloni e tirandomi i capelli. Mia moglie, mia collaboratrice e scrittrice Laurence, ha capito molto dopo che Cloudy non si chiamava “Claudia”.
Beh è incredibile…
Sì, lo è perché di fatto ero l’unico, oltre all’addestratore, che poteva avvicinare questo lupo. Incredibile anche perché, a detta dello stesso Andrew, era una cosa inaspettata e inspiegabile.
Dal momento in cui siamo stati presentati, quando ha iniziato a prendere il potere all’interno del giovane branco, è venuto verso di me saltellando con la coda tra le gambe e lo sguardo dolce… Mi ha annusato e si è messo a pancia in su disteso, Andrew mi ha consigliato di accarezzarlo. Cloudy mi ha leccato velocemente un dito e poi è ripartito verso il branco. Si è avvicinato ad ogni singolo lupo per fargli sentire il mio odore. Giorno dopo giorno ha continuato a fare lo stesso ma non più con un atteggiamento da “vassallo”, e sempre più come un amico. Non ha più permesso che si iniziasse a lavorare senza la sua dose di coccole mattutina.
Cioè?
Ogni mattina dovevo varcare la barriera elettrificata del recinto, arrivare sul suo territorio e aspettare che lui mi venisse incontro. Poi si alzava sulle zampe di dietro e poggiava quelle davanti sulle mie spalle, iniziava così a lavarmi il viso! Questa scena durava circa 5 minuti. La squadra mi aspettava pazientemente accanto alle telecamere. “Lascia che sia lui a mandarti via!” mi ripeteva Andrew. A quel punto tornavo indietro ripercorrendo la stessa strada dell’andata. Il mio assistente mi aspettava con una scatola di fazzoletti, una bottiglia d’acqua ossigenata, del disinfettante e i miei occhiali, che gli avevo dato prima di entrare. Verso la fine delle riprese è avvenuta l’apoteosi! Cloudy aveva reinventato il bacio alla francese, poggiava la sua lingua lunghissima tra i miei denti. Andrew mi ha spiegato che le mamme-lupo fanno così per dare ai loro cuccioli da mangiare, rigurgitando nella loro bocca il cibo… Direi che quindi si trattava di un segno di grande affetto!!!
Capisco tutto questo affetto ma il lupo è comunque un animale selvatico e pericoloso…
Non esiste la passione senza il rischio e io faccio un mestiere appassionante.
Nessuna paura in nessun momento?
Durante la preparazione del film a volte mi svegliavo nel cuore della notte, tutto sudato e mi chiedevo: “Come farò a girare le scene con i lupi e i cavalli che si rincorrono?”. Sulla carta aveva tutta l’aria di essere un grande momento di cinema ma oggettivamente mi sembrava infattibile. Alla fine questa scena l’abbiamo girata, acquattati sui nostri quod immersi nella bufera e circondati da centinaia di cavalli accecati dalla neve.
Ha comunque utilizzato dei droni?
Sì, perché le riprese aeree o dall’elicottero avrebbero fatto muovere troppo la neve e avrebbero fatto troppo rumore oltre che terrorizzato gli animali. Il drone ha il vantaggio di essere silenzioso. Ahimè ne abbiamo distrutto uno durante le riprese delle scena al galoppo. Ho visto dal monitor di controllo che l’immagine iniziava a tremare e poi appassire come una foglia secca. Mi sono precipitato per vedere cosa era successo e sul luogo ho trovato i proprietari cinesi del drone con la memory card in mano. Hanno esultato a squarcia gola perché le immagini erano rimaste registrate. Sono andati nel loro camion e hanno tirato fuori un altro drone. Hanno insistito perché rifacessi la ripresa anche il giorno dopo. Li ho ringraziati molto per la loro gentilezza e la loro generosità, prima di rendermi conto che un secondo giorno di riprese con il nuovo drone, gli avrebbe rimborsato praticamente l’intera cifra persa con la rottura del primo!
Aggiungiamo a questo anche un altro elemento: lupi e cavalli non sono proprio amici…
Per tutte le scene in cui i due animali sono insieme, Andrew Simpson ha fatto costruire dei corridoi separati dove lupi e cavalli hanno passato dei mesi. Al momento delle riprese, gli addestratori dei lupi hanno indossato delle calze blu e si sono messi sul cavallo mentre le persone che si occupavano dei cavalli gli stavano accanto, anche loro vestiti di blu, tipo puffi, così che potessero essere cancellati poi in post produzione. Le due equipe controllavano così i cavalli e il branco di lupi, pronti a intervenire in qualsiasi momento. Una buona parte degli effetti speciali del film è stata utilizzata per modificare queste scene. Un’altra parte è stata destinata ad aggiungere all’inquadratura i lupi quando la vicinanza sarebbe stata troppa per non mettere a rischio i cavalli.
Non sarebbe stato più semplice aggiungere i lupi in post produzione?
Questa cosa l’abbiamo fatta per alcune scene del film, una quindicina circa. Questo tipo di lavoro dà dei buoni risultati quando si tratta di scene riprese da lontano su grandi spazi. Al contrario, con questa tecnologia, è difficile ottenere un buon risultato per le scene più intime, le più emozionanti. Le immagini generate dai computer danno sempre un effetto stile cartone animato. Non si percepisce più l’animo o l’istinto di un attore – umano o animale – ma piuttosto l’idea che ne ha il programmatore, il quale spesso trae ispirazione dai video giochi o da immagini elettroniche della sua vita quotidiana.
Una parola anche per un altro aspetto importante dei suoi film: la terra, i paesaggi che ancora una volta sono quasi primordiali.
La verginità degli spazi è uno degli elementi fondamentali del film. Lo splendore della steppa è lo scrigno del lupo della Mongolia, il simbolo eroico e selvaggio della vita selvaggia. Massacrando la vita degli altri ci stiamo avvicinando a un epilogo tragico. Io mi affliggo da anni guardando questo lento suicidio che la nostra specie sta perpetuando. Jiang Rong, l’autore del romanzo, è stato testimone dell’ignoranza devastatrice che ha distrutto l’ambiente negli anni ’60, degli errori fatti in Cina su larga scala come purtroppo dappertutto. Io all’epoca ero in Camerun. Il bene fatto è stato quello di rimpiazzare le foreste con piantagioni di cacao o di ananas, di trasformare i grandi spazi in territori per l’allevamento, inondare intere regioni per irrigare questi territori destinati all’agricoltura…
L’ultimo lupo è il suo tredicesimo film ma a sentirla parlare sembrerebbe che la sua fame di cinema non sia mai svanita!
Questo viaggio incredibile è stato talmente divertente, diverso, ricco e caloroso … avrei voluto che durasse di più ma, questo film, che mi è piaciuto così tanto scrivere e mettere al mondo, sarà come tutti gli altri. Avrà una sua vita. Mi lascerà solo sul binario del treno. Ci vorranno settimane o mesi forse per organizzare il prossimo progetto.
Nel cast de L’ultimo Lupo: Shaofeng Feng – nel ruolo di Chen Zhen, Shwaun Dou – nel ruolo di Yang Ke, Ankhnyam Ragchaa – nel ruolo di Gasma, Yin ZhuSheng – nel ruolo di Bao Shunghi, Basen Zhabu- nel ruolo di Biling e Baoyingexige – nel ruolo di Batu.
La sceneggiatura, tratta dal romanzo Il totem del lupo di Jiang Rong (edito da Mondadori), è stata scritta da Alain Godard, Jean-Jacques Annaud, Lu Wei e John Collee.