Barragán.

A vent’anni esatti dall’omonimo esordio discografico del 1994 i Blonde Redhead tornano con un nuovo disco, Barrágan, ennesima svolta sonora di una carriera e un’espressività musicale non facilmente etichettabili.

Erano molti anni fa, forse il 1998, quando lessi per la prima volta una loro intervista. 2 italo-americani (gemelli) Simone e Amedeo Pace e 1 ragazza giapponese Kazu Makino. Parlavano delle loro influenze musicali. Sonic Youth, DNA e Lucio Battisti. Come non correre ad ordinarlo. Per posta. Sweetmusic, Nannucci… uno di quei mail-order. Ormai preistoria. Sono passati quasi quattro anni invece dal loro ultimo disco, Penny Sparkle, un po’ moscetto forse. Dall’album che lo ha consacrati alla gloria “indie”, Melody of certain damaged lemons, sono passati ormai 14 anni.

blonde-redheadBarragán, album numero nove, sembra una perfetta continuità dell’album “23”. La delicata post-no wave/noise dei 90’s è ormai lontana. Il disco è stato concepito in Italia, ad Alba vicino Cuneo. Sembra che i tre si siano fermati lì un paio di settimane dopo di una tournèe.

Barragán è un album senza dubbio minimalista. Ecco si è questa la sensazione ricorrente, di un minimalismo che non vuole stravolgere né rivoluzionare. Come di un album senza tempo e squisitamente delicato e malinconico. Da sottofondo notturno e non nottambulo. C’è un beat da dancefloor tranquillo (“Dripping”), poi “No more honey” con una sei corde eterea. Le altre sono vaghezze canterbury-style ed arty. Un intrigo di suoni elettronici ed elettrici.

blondeL’album, distribuito dalla loro nascente etichetta, è prodotto da Drew Brown, già collaboratore di Beck e Radiohead. Il nome invece è ispirato all’architetto messicano dei contrasti cromatici e dei muri tagliati Luis Ramiro Barragán Morfín. I tempi 4AD e Touch And Go sembrano decisamente lontani, ma il fascino nonostante tutto rimane inalterato.

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