Santa Maria della Scala è una della più antiche costruzioni senesi, sita da più di mille anni nel cuore della città. Originariamente un ospedale, è oggi in attesa di una completa riqualificazione (parzialmente già effettuata) che incrementi il polo museale attuale, ampliando lo spazio in cui si celebra e conserva la memoria storica. Federico Pacini ha fotografato gli interni dell’edificio non ancora ristrutturati in questo periodo di transizione, mentre sono ancora evidenti i segni del passato medievale, così come i recenti usi a cui lo spazio è stato adibito negli ultimi decenni.
Un viaggio fotografico racchiuso in un volume edito da Quinlan, con i testi di Roberto Maggiori.
Pacini cerca l’identità fuggevole di un luogo in profonda trasformazione, un’identità instabile e mutabile, emblematica nel rappresentare la contemporaneità con i suoi cambiamenti repentini e le stratificazioni di senso che si accumulano velocemente per essere via via rimpiazzate da nuove concezioni, in un incedere sempre più compulsivo che poco concede alla memoria collettiva e al tempo necessario alla sua sedimentazione nella coscienza. Gli spazi rilevati da queste fotografie sembrano proporre coordinate temporali piuttosto che geografiche, luoghi di confine tra la cultura millenaria, il passato prossimo e ciò che potrebbe essere.
Cresciuto in un luogo a forte densità monumentale come Siena e provincia, Pacini posa lo sguardo su ciò che è generalmente trascurato, refrattario alla pervasiva bellezza, talmente abituale e ostentata da diventare vuota retorica. L’autore cerca prospettive lontane dall’ovvia iconografia turistica, dall’immagine/cartolina così inflazionata da disattivare la capacità dello sguardo di elaborare vera conoscenza, di proporre nuove “visioni” e riflessioni che vadano al di là del più stereotipato luogo comune. Calcando i passi di una tradizione fotografica tutt’ora inesaurita, iniziata da precursori “antieroici” come Eugène Atget, nelle fotografie di Pacini la storia (soprattutto quella più eclatante, monumentale e in molti casi banalizzata) è sempre presente, ma resta sullo sfondo, caratterizza il luogo senza però colmare la percezione e l’immaginario. Il passato glorioso si intravede in secondo piano, mentre nella scena principale recitano il ruolo da protagonisti il presente e il futuro prossimo, nelle loro manifestazioni meno estetizzanti, capaci proprio per questo di attivare l’attenzione, sintonizzarla su ciò che ci circonda piuttosto che assopirla con rassicuranti icone predigerite incapaci di sollecitare qualsivoglia forma di coscienza.
Le inquadrature di Pacini edificano un’architettura nell’architettura: una struttura visiva che sintetizza un’immagine mentale in grado di stimolare l’interiorità più che l’appagamento/offuscamento sensoriale. Come molti autori coetanei, si muove su un terreno post ideologico, con lo “sguardo liberato dall’intenzione di convincere, di affermare”, una prassi che caratterizza la migliore fotografia italiana degli ultimi decenni, ma non solo la fotografia. Italo Calvino, riferendosi alla letteratura, definiva questa particolare condizione “leggerezza”, intesa non come superficialità, ma come propensione ad agire fuori dai pesanti schemi convenzionali, una propensione libertaria, antidogmatica e anti ideologica, votata all’indagine di ciò che è mutevole ed elementare. Sempre nelle Lezioni americane lo scrittore invita inoltre a porre attenzione a situazioni minime paragonabili, per usare una bella immagine di Lucrezio (nel De rerum natura), a “granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia”. Alle teorie di Calvino, spesso incentrate sull’atto stesso del vedere , farà più volte riferimento negli anni Ottanta Paolo Costantini associandole ai fotografi della “new wave” italiana come Guido Guidi, Luigi Ghirri, e rintracciando uno sguardo leggero, “tenero”, localista e antipositivista in caposcuola internazionali come Walker Evans, Robert Frank, William Eggleston, Lee Friedlander, Joel Meyerowitz, Robert Adams… Nel 2010 riprenderà le mosse da Calvino anche Luca Cerizza, per associare la “leggerezza” questa volta agli artisti del nostro paese emersi dalla metà degli anni Novanta. Nell’interessante scritto di Cerizza, curiosamente la fotografia (in questo caso ampiamente precorritrice di certe logiche sviluppatesi nell’ambito delle arti visive) è completamente trascurata, compaiono solo un paio di nomi tra cui un fotografo sui generis come Franco Vaccari, tra i pochi noti alla critica d’arte italiana, perlomeno fino a pochissimi anni fa. “Leggerezze” a parte, anche il lavoro di Pacini (come quello di altri autori contemporanei: Allegra Martin, Marcello Galvani, Luca Gambi, Jacopo Benassi, Cuoghi Corsello, Emiliano Biondelli e Valentina Venturi, tra i primi che mi vengono in mente) può essere ascritto in questa tradizione in cui si indaga la realtà locale privilegiando una “visione laterale” delle cose, opposta alla centralità del pensiero dominante e distante dalla spettacolarità fine a se stessa. Come dicevamo, Pacini propone in questo lavoro una realtà particolarmente instabile, mutabile e fluida , capace di suggerire all’osservatore interpretazioni diverse; non gli interessa far leva su categorie prestabilite, in una recente intervista afferma infatti: “che ci sia squallore o splendore non mi interessa, spesso fatico a distinguere queste due parole”. Nelle fotografie degli ambienti di Santa Maria della Scala, la prospettiva “post rinascimentale” non converge infine verso un ideale e rassicurante punto di fuga, ma svela il dispositivo visivo disoccultando la griglia geometrica che sottende l’illusione della profondità spaziale. Guidato da tubi sgargianti o tracciati smurati, il cono visivo incontra porte, vetrate e pareti che si trasformano indistintamente in superfici cieche, anche se quasi sempre emananti luce, come succede negli schermi cinematografici o negli ormai più comuni pc e smartphone, schermi rettangolari attraverso i quali viene simulata l’esperienza della “realtà”. I punti di vista fotografati da Pacini, tutt’altro che marmorei, si muovono nell’eterna dialettica tra la storia e la prosaicità del presente, una contrapposizione in grado di dare un senso all’incedere del tempo e alla trasformazione della nostra identità.
Federico Pacini ha ricevuto importanti riconoscimenti come la menzione di merito al Premio Hemingway 2014 per il libro Purtroppo ti amo (Quinlan 2013), e il Second place with Honorable Mension IPA 2009 International Photography Awards Lucie Awards (New York, Lincoln Centre) per il libro 00001735.tif. Lo stesso titolo ha ricevuto inoltre il Second place PX3 competiton – Prix de la Photographie Paris, nel 2010. Sue fotografie sono presenti in collezioni pubbliche e private come quelle del Museo Nazionale del Cinema di Torino; Museo di Fotografia Nazionale Alinari, Firenze; Musée de la Photographie, Charleroi ecc.