“Io Capitano”, la fiaba popolare contemporanea secondo Garrone

Dopo l’umanizzazione di fatti di cronaca drammatici con “Gomorra” e “Dogman” e dopo il recupero della fiaba nella sua forma più cruda, grottesca e vera con “Il Racconto dei Racconti” e “Pinocchio”, “Io capitano”, il nuovo film di Matteo Garrone presentato in questi giorni alla mostra cinematografica di Venezia, si colloca nel mezzo di questi due modi di raccontare.
La forma è quella del classico racconto di formazione; un vero e proprio viaggio dell’eroe con prove da superare e con un’importante crescita interiore come ricompensa finale. La differenza la fanno il contesto ed i due protagonisti: due giovani ragazzi senegalesi che sognano di andare in Europa e diventare dei musicisti famosi.
Seydou vive a Dakar insieme alla madre amorevole e alla sorella, in un ambiente familiare sentito e sicuro. Il suo desiderio, anche ingenuo, di partire insieme al cugino Moussa è molto più in linea con i desideri di un qualunque ragazzo che vuole scoprire il mondo e concretizzare le proprie ambizioni, piuttosto che con la disperazione tipicamente associata a chi intraprende un viaggio della speranza simile.
In questo senso il film potrebbe risultare immediatamente inviso a chi cerca del facile patetismo o qualcosa o qualcuno contro cui puntare il dito, ma il pregio più grande della narrativa di “Io Capitano” è la sua costante onestà. Nel corso del tortuoso viaggio di Seydou e Moussa, il film non condanna né esalta mai la scelta dei due giovani. Piuttosto si limita a mettere Seydou, il capitano della storia, davanti a tutte le difficoltà che è lecito aspettarsi: I controlli serrati al confine; la terrificante desolazione del deserto; le celle di prigionia in Libia dove è difficile distinguere il corpo di un uomo dall’altro; il tratto di mare aperto per arrivare in Sicilia che pare sconfinato. Ci sono feriti, ci sono persone portate via e ci sono morti. Chi rimane indietro è cancellato e non c’è tempo per compatire nessuno.
Ed è quando si palesano le prove più difficili, in cui la purezza di Seydou viene messa a dura prova, che emerge prepotentemente l’aspetto onirico e favolistico che fa da cornice a tutto il film, con i sogni del ragazzo talmente comprensibili da spezzare il cuore.


Il linguaggio della favola trova però pieno compimento nella fotografia. Il punto di vista di un ragazzo sognante alle prese con la propria odissea personale è impreziosito da una palette di colori vibrante e da inquadrature in cui ci si sente veramente piccoli davanti all’immensità del deserto o del mare da attraversare.
Si arriva alla fine con la vera sensazione di aver preso parte ad un’avventura dal grande impatto emotivo, con una chicca durante i titoli di coda che va a confermare anche l’uso intelligente della colonna sonora. Il film sa quello che vuole raccontare e come raccontarlo, ma come per Seydou, non c’è mai tempo per fermarsi e rendersi conto davvero di quello che sta accadendo e a coglierne tutti gli aspetti, anche impliciti. A volte ci si chiede se qualche minuto in più non avrebbe permesso di dare una profondità maggiore a una storia solida ma dallo sviluppo molto lineare, poiché si è scelto di tagliare qualsiasi cosa che non fosse inerente al peregrinaggio di Seydou. Se sia una scelta giusta o solo una mossa apolitica starà al pubblico deciderlo.

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