Killers of the Flower Moon

“Killers of the Flower Moon”, l’ultimo film di Martin Scorsese con protagonisti Robert De Niro e Leonardo Di Caprio, è uno di quei film dal grande impatto, imponente non tanto per il cast stellare coinvolto o per la durata esigente, quanto piuttosto per la visione chiara e appassionata di un regista che racconta sempre senza rendere conto a nessuno.

Come già ai tempi di “The Irishman”, Scorsese esamina un ecosistema sociale che si avvia verso il proprio declino a causa di uomini schiacciati da grandi conflitti interiori; è un cinema vecchio, ma non datato, che fa eco sia a “Gangs of New York” che a “C’era Una Volta in America”. Killers of the Flower Moon lavora sullo stesso principio. La differenza la fanno il patrocinio di AppleTV rispetto a Netflix e il soggetto: la disfatta del clan di nativi americani Osage nel corso degli anni ’20.

Basato sul libro “Gli Assassini della Terra Rossa” di David Grann, il film devia dalla prosa saggistica del resoconto delle indagini svolte dall’FBI, per abbracciare una dimensione più olistica in cui vengono esaminate le relazioni interpersonali. Al centro c’è Ernst Burkhart (Leonardo Di Caprio), un reduce della prima guerra mondiale arrivato in Oklahoma per affiancare lo zio William Hale (Robert De Niro) nella gestione dei terreni, con la scoperta che il territorio della nazione Osage è situato su un vasto giacimento di petrolio. Dopo il matrimonio di Ernst con l’Osage Mollie (Lily Gladstone), i membri della famiglia Osage iniziano a morire uno dopo l’altro ad opera proprio di Ernst e dello zio.

Non interessa il mistero di chi abbia compiuto il gesto o il perché, entrambi sono molto evidenti da subito per lo spettatore. I protagonisti sono piuttosto i giochi di potere sempre più efferati e subdoli. È un’escalation continua nella costruzione di una rete sempre più capillare, talmente tanto che pure il protagonista non riesce più a districarcisi. L’Ernest di Di Caprio, lontano dal carisma predatorio di Jordan Belfort, è un uomo in balia delle sue contraddizioni, sempre pronto a convincersi che il fine giustifichi i mezzi e incapace di essere onesto con sé stesso su cosa sia giusto e cosa no. Resta chiaro e indissolubile, sia nella salvezza che nella rovina, solo il legame con il preminente zio, o re, come preferisce essere chiamato.

La narrazione resta comunque super partes. Scorsese segue la vicenda come un giornalista d’inchiesta che usa foto, ricostruzioni di testimonianze storiche e qualsiasi altro strumento in suo possesso per ridare valore e autenticità a una storia dove i dettagli sono e radi sfumati come il verde delle praterie protagoniste dei campi lunghi inziali, rimpiazzato nel corso del film da una urbanizzazione sempre crescente. Una vicenda dove il suono dei canti Osage è sostituito presto da una (grandissima) colonna sonora dai toni folk. Emerge, senza sforzo, un tacito ed atavico senso di rimorso per ciò che è andato perso. Resta il ricordo di come un popolo abbia rinnegato la propria identità in cambio dello sfarzo e di come, di conseguenza, sia stato punito dall’egoismo dell’uomo bianco.

Un mondo in cui viene tenuto conto della pluralità dei “Killers” dei fiori tipici dell’Oklahoma e la cui verità trova il suo spazio in una cornice “true crime” dal grande valore artistico.

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