Arabesco, grafismo millenario, capace di trasfigurare mondi e suggestioni in una pittura rivoluzionaria e dirompente, mai vista prima: è su questa fascinazione che gira la grande mostra dedicata a Henri Matisse, allestita fino al 21 giugno alle Scuderie del Quirinale.
Esposti circa 100 capolavori, tra cui i dipinti e i disegni di uno dei padri delle avanguardie storiche, affiancate in un dialogo puntuale con magnifici oggetti d’arte, stampe, tessuti, testimonianze delle culture e antiche civiltà che influenzarono l’arte di Matisse.
Con il titolo Matisse. Arabesque, la rassegna co-prodotta dall’Azienda Speciale Palaexpo e da MondoMostre presenta una selezione eccezionale di opere, gelosamente custodite nelle collezioni pubbliche e private più importanti del mondo, che però hanno consentito al prestito di fronte al progetto scientifico della curatrice Ester Coen.
”E’ stato un lavoro di anni, molto faticoso”, ha detto la Coen. L’Arabesque è quindi inteso quale filo conduttore della produzione dell’artista, che da questo motivo antichissimo fa scaturire linea, segno, colore. Con esso ”ricrea spazi nuovi” che sulla tela da un lato rimandano a magici luoghi d’Oriente, dall’altro concretizzano l’idea di una pittura che si fa emozione. E suggeriscono un vero e proprio spazio plastico, un nuovo respiro alle composizioni, liberandolo dalle costrizioni formali, dalla necessità della prospettiva e della somiglianza. Del resto, Matisse ne era consapevole fino in fondo. ”L’arte moderna è un’arte di invenzione – diceva nel 1952 – parte come slancio del cuore. Per la sua stessa essenza, dunque, è più vicina alle arti arcaiche e primitive che all’arte del Rinascimento”.
La scoperta delle culture dell’Africa Centrale e settentrionale, del Medio Oriente, della Cina, ma soprattutto del Giappone, che tanto lo influenzarono, sono presenti in mostra con opere anch’esse eccezionali, dalle ceramiche turche alle stoffe marocchine ai kimono del sol levante.
Henri Matisse non era destinato alla pittura, “Sono figlio di un commerciante di sementi, al quale avrei dovuto succedere nella gestione del negozio”, cerca di intraprendere la carriera di avvocato prima di diventare un artista. Sarà la sua salute a cambiare il corso della storia. Lavorava come assistente in uno studio legale di Saint-Quentin, quando nel 1890 una grave appendicite lo costringe a letto per quasi un anno. Comincia a dedicarsi alla pittura e dal 1893 frequenta l’atelier del pittore simbolista Gustave Moreau insieme con l’amico Albert Marquet. Si iscrive ufficialmente all’École des Beaux Arts nel 1895, dove insegnano molti Orientalisti.
In quegli anni vedrà molto Oriente: visita la vasta collezione islamica del Louvre in esposizione permanente e le diverse mostre che, nel 1893-1894 e soprattutto nel 1903, vennero dedicate all’arte islamica al Musée des Arts Decoratifs di Parigi. E poi, all’Esposizione mondiale del 1900, scopre i paesi musulmani nei padiglioni dedicati a Turchia, Persia, Marocco, Tunisia, Algeria ed Egitto. Matisse frequenta anche le gallerie dell’avanguardia, come quella di Ambroise Vollard, dal quale acquista nel 1899 un disegno di Van Gogh, un busto in gesso di Rodin, un quadro di Gauguin e uno di Cézanne, che influenzerà moltissimo l’opera di Matisse.
Viaggia in Algeria (1906), ne riporta ceramiche e tappeti da preghiera che nel disegno e nei colori riempiranno le sue tele da li in poi, in Italia (1907) visita Firenze, Arezzo, Siena e Padova “quando vedo gli affreschi di Giotto non mi preoccupo di sapere quale scena di Cristo ho sotto gli occhi ma percepisco il sentimento contenuto nelle linee, nella composizione, nei colori”.
La visita alla grande “Esposizione di arte maomettana” a Monaco di Baviera nel 1910 – la prima mostra di arte mussulmana che influenzerà una generazione di artisti, da Kandinsky a Le Corbusier – sarà il vero spunto per un tipo di decorazione di impianto compositivo assai lontano dalle sue tradizioni occidentali. E’ a Mosca nell’autunno 1911 per curare l’installazione in casa Schukin di La danza e La musica. Nel 1912 torna in Africa, stavolta la meta è il Marocco, Tangeri la bianca. Ecco che il tailleur de lumiere, come lo battezza non a caso il genero Georges Duthuit, è sorpreso da una luce dolce e da una natura lussureggiante che andranno ad accentuare la sua cadenza armonica, musicale: “un tono non è che un colore, due toni sono un accordo”.
Matisse si lascia alle spalle le destrutturazioni e le deformazioni proprie dell’avanguardia, più interessato ad associazioni con modelli di arte barbarica. Il motivo della decorazione diventa per l’artista la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura. E’ dai motivi intrecciati delle civiltà antiche che Matisse coglie i principi di rappresentazione di uno spazio diverso che gli consente di “uscire dalla pittura intimistica” di tradizione ottocentesca.
Il Marocco, l’Oriente, l’Africa e la Russia, nella loro essenza più spirituale e più lontana dalla dimensione semplicemente decorativa, indicheranno a Matisse nuovi schemi compositivi. Arabeschi, disegni geometrici e orditi, presenti nel mondo Ottomano, nell’arte bizantina, nel mondo ortodosso e nei Primitivi studiati al Louvre; tutti elementi interpretati da Matisse con straordinaria modernità in un linguaggio che, incurante dell’esattezza delle forme naturali, sfiora il sublime.
Davanti ai delicati grafismi nipponici, in un dialogo sorprendente, ecco ‘Ramo di pruno, sfondo verde’ (1948) proveniente dalla Pinacoteca Agnelli, che ha prestato anche ‘Edera in fiore’ e ‘Interno con Fonografo’. E se il ‘Ritratto di Yvonne Landsberg’ (1914), per la prima volta in Italia (dal Museo di Filadelfia), rimanda alle fascinazioni africane che invadevano Parigi, i capolavori provenienti dal Puskin e dall’Ermitage (come ‘Zorah sulla terrazza’, ‘Rifano in piedi’, ‘Angolo di studio’) raccontano l’esotismo delle culture islamiche.
Splendidi i disegni, in cui l’arabesco torna nel gioco della figura, nonché nel tema dell’albero in tutte le sue varianti, ed esplode nelle celebri odalische (‘Odalisca blu’, ‘Due modelle che si riposano’, ‘Paravento moresco’) fino ai ‘Pesci rossi’, capolavoro che torna dopo anni in una mostra italiana, e che chiude il percorso.