Sir Vidia(dhar) Surajprasad Naipaul ha smesso di viaggiare. È davvero triste confessarlo, ma la letteratura contemporanea piange la morte dell’ultimo Odisseo, l’ultimo narratore desideroso di restituire con veridicità ciò che vedeva nei suoi viaggi. Senza filtri e senza tediarsi delle paturnie derivanti dal politically correct. Soleva affermare che “il mondo è quello che è”.
E Vidia chi era davvero? Figlio di bramini, sebbene nato a Trinidad, intellettuale ai massimi livelli in Inghilterra, ma legato indissolubilmente all’India, come testimoniato dal suo nome appiccicato su un ragazzino caraibico, che in realtà si ritrovava a dover convivere nella minuscola Chaguanas e le sue piantagioni di zucchero tra schiavi, negri e musulmani. Un ragazzo che aspirava, in ogni modo possibile, a comprendere la sua vera natura attraverso la lettura e attraverso la scrittura, lasciando la sua Itaca per non farvi mai più ritorno.
Era il 2001, mentre a Ground Zero c’erano ancora macerie fumanti al di sotto di quello che erano state le Torri Gemelle, a Stoccolma un mese dopo Sir Vidia conquistava il Nobel per la letteratura, senza dubbio uno dei più meritati degli ultimi vent’anni. E questo non perché l’attribuzione del premio apra le porte del Pantheon della letteratura. D’altronde per attribuirne la giusta valenza al Nobel basterebbe dire che Philip Roth è morto senza potersene fregiare… Tuttavia è grazie a quel Nobel che ho conosciuto l’opera Sir Vidia. In particolare, mi suscitava una irrefrenabile curiosità quel nome esotico e originale.
Nei giorni del terrorismo islamico, la sua opera “Fedeli a oltranza (Beyond Belief)” veniva proposta come chiave di lettura illuminata per ciò che stava accadendo nelle valli del Panjshir e che aveva sconvolto per sempre le vite di noi occidentali. In quel libro si ha un quadro compiuto di ciò che rappresenta l’Islam all’interno delle società contemporanee, non solo una visione oggettiva e dissacrata sull’Islam contemporaneo, bensì un modo di intendere come sia una religione totalizzante. Ciò lo si osserva in special modo, in paesi che in realtà arabi non sono (Indonesia, Iran, Pakistan e Malaysia) e dove vengono alla luce tutte le idiosincrasie del caso. Osservava Naipaul:” Tutti i musulmani non arabi sono convertiti”. Anni fa, l’ho incontrato di persona durante il Festival delle Letterature di Roma nella meravigliosa Basilica di Massenzio. Un palcoscenico maestoso e quasi irreale dove la lettura dei testi di Sir Vidia risultava, se possibile, essere ancora più evocativa dell’opera di quell’uomo che aveva trasformato la scrittura di viaggio nel mezzo per cercare di viaggiare all’interno di se stesso.
In quella circostanza, mi era rimasta scolpita nella mente una riflessione del Maestro in quella circostanza: “Credo che le parole debbano avere un destino serio nel mondo, compito dello scrittore è permettere che ciò accada. Altrimenti meglio il silenzio”. Non credevo fosse possibile, in meno di trenta secondi, definire il senso della scrittura.
Terminata la Lettura, intitolata “Parola, silenzio”, ero umilmente in fila per avere una copia autografata del suo libro “Un’area di tenebra (An Area of Darkness)”.
Ciò malgrado il monito del suo agente letterario visto il carattere particolarmente spigoloso del Maestro, tuttavia ero consapevole che mai mi sarebbe ricapitata un’occasione del genere in una cornice simile. Inoltre, ogni volta che udivo il nome di Naipaul avrei potuto rimembrarlo, in quel modo seduto curvo su una sedia vestito in perfetto stile coloniale inglese che con una penna stilografica tracciava una specie di ideogramma rappresentativo del suo nome.
Voglio commemorarlo con un suo breve aneddoto su quello che sarà il posto della parola/Verbo nell’eternità: “alla fine secondo una tradizione indù, ci sarà quell’unica sillaba che comprende l’universo e tutto il suo contenuto una parola che abbraccia l’eternità:” OM!”. Fai buon viaggio caro Vidia.